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Imprese e agenti segreti quella strana accoppiata

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Questo articolo è stato pubblicato il 25 luglio 2010 alle ore 14:36.
L'ultima modifica è del 25 luglio 2010 alle ore 14:21.

I libri di storia economica e di diritto dell'economia indicano una varietà di strumenti con i quali gli stati hanno protetto e proteggono le loro industrie contro la concorrenza straniera. Disponiamo di trattazioni approfondite delle tariffe, delle regole tecniche escludenti, degli aiuti finanziari, delle commesse pubbliche, ma assai raramente leggiamo qualcosa sulla protezione che più sta prendendo piede al nostro tempo, quella di mettere a disposizione delle imprese i servizi segreti, tanto in chiave difensiva, quanto a volte in chiave offensiva.


Abituati come siamo ad accoppiare i servizi segreti alle istituzioni politiche e alla difesa militare, quella fra gli stessi servizi e le imprese ci appare un po' una strana coppia. Ma a pensarci bene ci si accorge presto che la coppia è assai meno strana di quanto non sembri. Nel mondo di oggi sarebbe certo esagerato dire che per dare forza a un paese il potenziale militare ha smesso di contare, ma certo accanto ad esso conta sempre di più l'economia e quindi la capacità delle imprese di ciascun paese di generare innovazione, di esportare, di produrre fuori dai propri confini, di far dipendere gli altri da sé, più di quanto in un mercato globale ciascuno dipenda sempre dagli altri.


La globalizzazione non ha cancellato gli interessi nazionali, sarebbe davvero ingenuo pensarlo. Ne ha allargato la sfera ad ambiti diversi rispetto a quelli schiettamente statuali, e non è un caso che il passaggio dal G-8 al G-20 sia avvenuto in ragione della crescita economica di paesi che prima erano deboli perché deboli erano le loro economie.
Né è un caso che l'ultima «Strategia per la sicurezza nazionale» pubblicata dalla Casa Bianca nel maggio scorso affidi in primo luogo alla forza economica degli Stati Uniti la prospettiva di una loro leadership nel mondo di domani.

S e così è, attività che probabilmente ci sono state sempre, dallo spionaggio industriale alla disinformazione a danno dei concorrenti, hanno acquistato un rilievo e una dimensione crescenti, uscendo dal loro alveo tradizionale - quello tutto privato della concorrenza sleale - per investire interessi nazionali e attrarre l'attenzione degli apparati pubblici che, ad altri fini, di spionaggio e disinformazione si sono sempre occupati, i servizi di informazione statali. È stato proprio Il Sole 24 Ore a raccontarci il 23 giugno scorso che nel suo più recente rapporto l'intelligence tedesca collocava al centro dell'attenzione la difesa del sistema industriale da attacchi spionistici esterni.

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Né si tratta, necessariamente, di difesa pubblica da attacchi privati. Al contrario, se qualcosa abbiamo capito della vicenda delle spie russe prima arrestate negli Stati Uniti e poi rilasciate a Vienna in puro stile Terzo uomo, si trattava di agenti pubblici che cercavano di acquisire segreti tecnologici privati. Quindi può ben accadere che siano gli stati stessi a impegnare le loro risorse per attaccare imprese private di altri paesi.
I danni di attacchi del genere sono almeno di due tipi. Ci può essere il furto di know how, che azzera il possibile rendimento di investimenti coltivati per anni, e ci può essere il furto di reputazione, che, via disinformazione, può produrre danni anche peggiori. Secondo la sua dirigenza interna, la nostra Finmeccanica sarebbe oggi vittima di un caso del genere e questo ci aiuta a capire la difficoltà dei frangenti in cui ci si può trovare. Si aggiunga una terza situazione, quella frequentissima delle imprese che si vanno a insediare in paesi terzi che conoscono poco e nei quali hanno bisogno di partner, produttivi o finanziari. Come capire con chi si ha a che fare? Come avere la ragionevole certezza di non cadere in qualche guaio o in qualche trappola?


Ecco materializzarsi così le ragioni della strana coppia, impresa e servizi. Non tutti i paesi la consentono. In Francia, ad esempio, lo stato ha mantenuto l'esclusiva sulle informazioni della propria intelligence e le imprese devono organizzare da sole i loro servizi di sicurezza. In Italia, dove i servizi fai da te non hanno dato una prova eccellente, una delle buone riforme che si è riusciti a fare durante il breve governo Prodi del 2006, è stata per l'appunto quella dei servizi. E la legge 124 del 2007 ha allargato la missione degli stessi servizi al di là della tutela dell'integrità e della sicurezza dello stato, includendovi la protezione degli interessi «economici, scientifici e industriali dell'Italia». Ciò significa - sia chiaro - che la nostra intelligence è abilitata non a fare spionaggio offensivo e disinformazione a danno dei concorrenti, ma a difendere le nostre imprese da chi faccia l'una o l'altra cosa.
È un cambiamento di grande portata, che ne esige molti altri e che proprio per questo va preparato e realizzato con cura, specie in un paese nel quale l'immagine dell'intelligence è troppo spesso quella dei servizi deviati e di un personale percepito più come complice di azioni disdicevoli che come protagonista di azioni meritorie. C'è molto di ingiusto in questo e basta a dimostrarlo una figura come Nicola Calipari, tragicamente ucciso in Iraq durante la liberazione di Giuliana Sgrena. Ma è certo vero che c'è stato anche dell'altro.


Abbiamo letto in questi giorni che l'Aisi, l'Agenzia per la sicurezza interna, avrebbe "messo sotto tutela" un centinaio di piccole e medie imprese per difenderle dal possibile furto dei loro brevetti innovativi, sulla scia dell'allarme che è sorto attorno alla Tac senza tubo, promettente invenzione di un'impresa italiana. È un'iniziativa da condividere, ma il fatto stesso che sulla stampa la si sia presentata con un po' di fantasia - parlando di un elenco di imprese stilato da Palazzo Chigi con parere dell'apposito Comitato parlamentare e profilando così una procedura ragionevole che tuttavia al momento non risulta seguita - lascia capire che attorno al tema c'è ancora molto lavoro da fare.


Occorre rinnovare la cultura della sicurezza, che da noi è molto approssimativa e ancora troppo legata ai soli rischi ereditati dal passato, e occorre diffonderla oltre gli apparati e quindi nel mondo di quegli interessi economici, scientifici e industriali che ora riteniamo in gioco. Occorre avere il personale adatto e, nonostante la sua elevata professionalità, non è detto che il personale militare su cui soprattutto può contare l'Agenzia per la sicurezza esterna basti a fronteggiare rischi che non sono più soltanto militari. Occorrono effettivamente procedure per interagire con imprese e centri di ricerca, reprimendo sulla loro attuazione il bisogno di andare sulla stampa. Ma soprattutto occorre che cambi l'immagine che in Italia perdura dei servizi.
Dotare il paese di un'intelligence che gli italiani chiamino così e di cui abbiano fiducia. L'accoppiata con l'economia e le imprese offre l'occasione per provarci.

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