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Questo articolo è stato pubblicato il 30 luglio 2010 alle ore 07:56.
L'ultima modifica è del 30 luglio 2010 alle ore 09:02.
L'anno scorso a un dibattito intitolato Buy american, hire American: policies will backfire («Le politiche ispirate al "compra americano, assumi americani" avranno un effetto contrario a quello auspicato»), svoltosi a New York alla presenza di centinaia di persone, il mio team composto da tre promotori del libero commercio ha sfidato un terzetto di sostenitori del protezionismo, molto noti e spesso sotto i riflettori.
Ci aspettavamo di perdere il favore del pubblico con una percentuale di 45 a 55, ma in realtà abbiamo inflitto loro una cocente sconfitta, aggiudicandoci il favore del pubblico con una percentuale impensabile di 80 a 20. Il feedback di numerosi tra i presenti è che abbiamo prevalso facilmente poiché avevamo portato le «motivazioni e prove», laddove i nostri avversari avevano presentato «affermazioni e invettive».
Evidentemente, oggi il pessimismo che spesso opprime i sostenitori del libero commercio è ingiustificato. Le tesi dei protezionisti, vecchi e nuovi, sono semplici miti che è possibile contestare e sfatare facilmente. Prendiamone in considerazioni alcuni tra i più noti.
1 - I costi del protezionismo sono trascurabili.
Questo, naturalmente significa che se il protezionismo è conveniente da un punto di vista politico, non si dovrebbero versare lacrime perché si infliggono sacrifici al paese adottandolo, atteggiamento che molti democratici degli Stati Uniti trovano conveniente seguire. Paradossalmente, questo mito è stato il prodotto di una metodologia inappropriata, scaturita dalla ricerca del mio illustre professore di Cambridge Harry Johnson, rimasta alquanto inesplicabilmente la tesi favorita del mio illustre studente del Mit Paul Krugman sin dagli anni 90. Mentre però questi temi continuano a funzionare bene a Washington, nessun serio studioso li fa suoi, grazie alle convincenti confutazioni pubblicate nel 1992 da Robert Feenstra, il più illustre studioso "empirico" odierno delle politiche commerciali, e nel 1994 da Paul Romer della Stanford University.
2 - Il libero commercio può accrescere il benessere economico, ma non va bene per la classe dei lavoratori.
Questa affermazione gode di grande attendibilità presso i sindacati dei lavoratori che credono che avere rapporti commerciali con i paesi poveri provochi ristrettezze nei paesi ricchi. Di conseguenza, essi sostengono che è necessario spianare il terreno di gioco, per esempio che è opportuno che le spese dei loro concorrenti nei paesi poveri siano aumentate, imponendo i medesimi standard lavorativi che esistono nei paesi ricchi. L'uso orwelliano di definizioni come "commercio equo" maschera il fatto che questa altro non è che un'insidiosa forma di protezionismo che cerca di moderare la concorrenza nelle importazioni. Molti economisti, ciò nonostante, sono giunti alla conclusione che il principale colpevole della stagnazione che si osserva oggigiorno negli stipendi dei paesi ricchi è la continua innovazione tecnologica che incide profondamente tagliando la manodopera, e non certo il commercio con i paesi poveri. Oltretutto, i lavoratori possono approfittare loro stessi dei prezzi più bassi di prodotti importati quali abbigliamento e articoli elettronici.