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Questo articolo è stato pubblicato il 30 luglio 2010 alle ore 07:50.
L'ultima modifica è del 30 luglio 2010 alle ore 08:59.
Si può parlare ancor oggi della questione meridionale, del divario del Sud rispetto al resto della penisola, come di una "questione nazionale", dalla cui soluzione dipende la sorte del paese? Oppure non è il caso di preoccuparci, piuttosto, di una "questione settentrionale", del pericolo che il Nord finisca col perdere terreno rispetto alle aree europee più avanzate? In realtà, entrambe le questioni sono complementari: tanto più se si considera che, in un mercato globale e in uno scenario economico multipolare, si ha a che fare con una competizione sempre più serrata fra sistemi-paese nella loro interezza.
Del resto, che il riscatto delle regioni meridionali fosse essenziale per la crescita generale del paese, era già ben presente a quanti fondarono cent'anni fa, nel 1910, l'Associazione nazionale per gli interessi del Mezzogiorno. Poiché questo sodalizio sorse per iniziativa non solo di eminenti meridionalisti (come Giustino Fortunato, Pasquale Villari, Gaetano Salvemini, Francesco Saverio Nitti) ma anche del piemontese Umberto Zanotti Bianco, del lombardo Tommaso Gallarati Scotti, del friulano Bonaldo Stringher, del toscano Leopoldo Franchetti.
Resta il fatto che finora le distanze del Sud dal Nord, anziché ridursi, si sono accentuate (come emerge anche dall'ultimo rapporto della Svimez). Una volta venuta meno negli anni 90 la politica interventista della mano pubblica (in seguito alle privatizzazioni e alle norme dell'Unione Europea), ha finito così per diffondersi nel Mezzogiorno la tesi che non si sia comunque fatto quanto dovuto per porre rimedio alle "prevaricazioni" che sarebbero state commesse a danno del Sud, sin dall'unificazione, attraverso una "colonizzazione" dell'economia meridionale a tutto vantaggio del Nord.
Per contro, nel Settentrione, ha tenuto banco, ancor prima che spuntasse la Lega, l'idea che il Mezzogiorno sia stato sempre una pesante zavorra per il Nord in quanto avrebbe seguitato a drenare gran parte della spesa pubblica. Oggi sarebbe non solo sterile ma del tutto improprio se il dibattito pubblico continuasse a risentire di questa vecchia querelle. E non si procedesse invece a un ripensamento della questione meridionale fuori da certi pregiudizi.