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Commenti e Inchieste

Carcere preventivo solo se serve

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Questo articolo è stato pubblicato il 03 agosto 2010 alle ore 08:05.

C'è un antico vizio nella nostra legislazione e nella nostra opinione pubblica: quello di oscillare irragionevolmente, in tema di politica criminale, fra due eccessi, a seconda che in quel momento prevalga la preoccupazione per l'"allarme sociale" suscitato dai reati o da certi reati, ovvero la preoccupazione per veri o presunti eccessi della magistratura, in particolare nell'applicare la carcerazione preventiva.

Se prevale la prima preoccupazione, si grida al "lassismo" dei magistrati e s'invocano misure draconiane ("buttiamo la chiave"), dimenticando ogni esigenza di ragionevolezza e di rispetto dei principi del sistema penale. Se prevale la seconda (in un'oscillazione del "pendolo"), si grida al "giustizialismo" e s'invocano, a ragione o a torto, più rigorose garanzie per gli accusati di reati in nome della presunzione di non colpevolezza.

In materia di custodia cautelare in carcere valgono, e dovrebbero sempre valere, elementari principi di civiltà giuridica, tante volte affermati dalla giurisprudenza della Corte costituzionale e da quella della Corte europea dei diritti dell'uomo, a tutela del diritto fondamentale alla libertà personale.

L'accusato in attesa di giudizio si presume non colpevole, e dunque misure restrittive, specie personali, possono essere adottate nei suoi confronti a condizione che non solo sussistano gravi indizi del reato, ma anche che sussistano specifiche esigenze cautelari, come quelle derivanti dal pericolo di reiterazione del reato, dal pericolo di fuga o dal pericolo d'inquinamento delle prove. Le condizioni che legittimano la misura restrittiva devono di norma essere accertate in concreto, e le misure adottate devono essere proporzionate e ristrette al minimo indispensabile per fronteggiare in concreto le riscontrate esigenze cautelari.

Se si scorrono le disposizioni del nostro codice di procedura penale (articoli 280 e seguenti) non solo si trovano questi principi chiaramente enunciati, ma è anche palese la successiva stratificazione di modifiche succedutesi negli anni, per lo più nell'intento di rafforzarne le garanzie di osservanza e di prevenire veri o presunti abusi operati dalla magistratura nell'impiego della carcerazione preventiva. Una modifica del 2009, invece, riprendendo una linea già affermatasi nel 1991, ma fortemente ridimensionata nel 1995 (a proposito di oscillazioni del pendolo), aveva nuovamente esteso a una serie numerosa di reati, fra cui quelli sessuali, la regola eccezionale per cui, in presenza di gravi indizi di colpevolezza, la magistratura deve comunque applicare la carcerazione preventiva, salvo che si dimostri l'insussistenza di esigenze cautelari (una sorta di inversione dell'onere della prova) e soprattutto senza alcuna possibilità di ricorrere a misure meno restrittive come gli arresti domiciliari.

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Questo regime cautelare speciale, prima del 2009, era limitato agli accusati di reati di criminalità organizzata: e a questo riguardo era stato già esaminato sia dalla Corte costituzionale sia dalla Corte europea dei diritti, e ritenuto non incompatibile con le garanzie fondamentali dei diritti, data l'eccezionalità delle esigenze di politica criminale concernenti la lotta alle mafie.

Ora la Corte costituzionale, con la sentenza n. 265 pubblicata il 7 luglio, ha invece giudicato parzialmente incostituzionale tale regime speciale in quanto applicato ai reati sessuali (solo di questi era chiamata a giudicare nel caso) affermando che, ove in concreto si dimostri che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con misure meno restrittive, il giudice deve far ricorso a esse e non disporre la carcerazione preventiva. Resta dunque il regime cautelare speciale, resta la presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari, mentre cade soltanto il rigido divieto di far ricorso a misure meno restrittive pur quando esse appaiano in concreto idonee a fronteggiare dette esigenze.

C'è davvero da sorprendersi della sorpresa indignata di certi commenti. Il principio del "minimo sacrificio" della libertà personale prima della condanna, per cui la carcerazione preventiva non può essere usata in funzione di anticipazione della pena, ma solo per soddisfare specifiche esigenze cautelari non altrimenti fronteggiabili, è chiaramente implicito nella Costituzione. Semmai il problema è se si giustifichi, e come, il regime speciale previsto dalla legge, e ritenuto non incostituzionale, nel caso dei reati di mafia.

Ma a questo proposito è del tutto fuori luogo la critica di chi afferma che i reati sessuali non sono meritevoli di un trattamento meno severo rispetto ai crimini mafiosi. Infatti la deroga ai principi, se si giustifica, può giustificarsi eventualmente (e così lo è stata dalle Corti) solo in vista delle caratteristiche oggettive dei reati di criminalità organizzata, in cui sussiste fin dal momento dell'indagine la non irragionevole esigenza d'impedire efficacemente il permanere dei collegamenti degli accusati fra loro e con l'associazione mafiosa, ciò che solo il regime carcerario potrebbe assicurare.

La gravità dei reati per cui si procede (e così dei reati sessuali) non c'entra: l'apprezzamento di essa deve trovare posto, come afferma la Corte, attraverso la «comminatoria di pene adeguate, da infliggere all'esito di processi rapidi a chi sia stato riconosciuto responsabile di quei reati, in sede di fissazione e di applicazione della pena», e non già con «una indebita anticipazione di queste prima di un giudizio di colpevolezza».
Ancora una volta la Corte ha portato la ragione là dove l'irrazionale tende, troppo spesso, a impadronirsi delle leggi.

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