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Questo articolo è stato pubblicato il 07 agosto 2010 alle ore 08:05.
L'Istat ha registrato nei giorni scorsi una caduta della produttività del lavoro nell'ultimo decennio in Italia. Rivedere le sue serie storiche aiuta anche a dissolvere un po' delle nebbie demagogiche che avvolgono il dibattito sul lavoratore globale e la Fabbrica Italia. Il problema della competitività del paese come luogo di produzione riguarda tutto il sistema produttivo, non soltanto Pomigliano, la Fiat e i metalmeccanici. Un territorio continua a produrre nel mondo globale se sa fare le cose meglio degli altri a costi adeguati. Ma se la produttività del lavoro cala, mentre negli altri paesi aumenta, i lavoratori italiani rimangono indietro non solo nei confronti di cinesi e indiani, pagati poco e con tutele limitate, ma anche dei loro colleghi europei, tedeschi in testa, con condizioni equivalenti se non migliori.
La questione della competitività sta in un acronimo da fumetto, il Clup, Costo del lavoro per unità di prodotto. Ora il Clup è cresciuto tra il 1995 e il 2008 del 30,3%, mentre in Germania è diminuito del 3 per cento. Perché? Proprio perché, come ribadito nelle nuove serie dell'Istat, la produttività del lavoro, quanti bulloni o mozzarelle si riescono a fare in un'unità di tempo, sostanzialmente stagna da metà degli anni 90, mentre nello stesso periodo è aumentata di oltre il 30% in Germania.
Il paradosso è che il Clup è aumentato mentre il costo del lavoro è rimasto fermo. Il salario lordo medio è oggi inferiore alla media europea. E quello netto, dato l'elevato cuneo fiscale, è ancora più basso. La competitività italiana soffre per il modo in cui il lavoro viene utilizzato nei processi produttivi, non per il suo costo.
Da questo punto di vista, chi interpreta la riforma del contratto del lavoro dei metalmeccanici avviato dalla vertenza di Pomigliano come una corsa al ribasso nelle condizioni del lavoro in Italia, un dumping sociale innescato dai paesi emergenti, propone una visione completamente distorta del problema. Soprattutto dimentica che l'aumento della produttività è l'unica via per riuscire ad aumentare i salari nel lungo periodo, salari che non sono certamente comprimibili al ribasso in questo momento. Il dumping sociale non è una strada perseguibile e nessuno la vorrebbe. La sfida è invece riorganizzare il lavoro e i contratti in modo da aumentare la produttività e così non dissipare il nostro straordinario patrimonio di competenze, la vera forza competitiva del nostro territorio. Solo per questa via l'Italia può competere sui costi, e nel lungo periodo migliorare il livello di remunerazione dei lavoratori.