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In tempo per evitare la sindrome giapponese

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Questo articolo è stato pubblicato il 12 agosto 2010 alle ore 10:11.
L'ultima modifica è del 12 agosto 2010 alle ore 11:10.

La vecchia definizione dell'economia come scienza triste è rilanciata dal crescente numero di esperti che pronosticano una «nuova normalità» secondo la quale ci attenderebbero anni di sindrome giapponese, ossia uno scenario di sostanziale stagnazione in sostituzione della tradizionale alternanza dei cicli economici.
Il termine coniato da Bill Gross del maxifondo Pimco trova popolarità di fronte a quanto le analisi economiche classiche non provano nemmeno a spiegare, tanto "tecnicamente" appare assurdo: il fatto che nemmeno le condizioni monetarie più accomodanti – come già accaduto nel Sol Levante dopo lo scoppio della bolla degli asset – riescano a rilanciare la crescita.

Tornano di moda i riferimenti all'esperienza nipponica in un momento in cui l'economia dei paesi avanzati finisce per somigliare in blocco a un grande Giappone post-bolla. Dal maggior esperto del cosiddetto "decennio perduto" giapponese, Richard Koo di Nomura, continuano ad arrivare inviti a non considerare la partita già persa: l'ha detto di recente nella sua testimonanza al Congresso Usa, coincisa con i segnali di un nuovo rallentamento dell'economia a dispetto delle mosse espansive senza precedenti della Fed ormai in atto da quasi un paio d'anni. «Nella sala d'attesa ho avuto l'opportunità di parlare con Bernanke – rivela –. Mi ha detto di aver letto il mio libro (The Holy Grail of Macroeconomics: Lessons from Japan's Great Recession) e che ha trovato utile l'analisi della situazione giapponese».
La Fed, dopo la decisione di riprendere gli acquisti di titoli pubblici e l'indicazione che terrà i tassi ultrabassi ancora per molto, sta esaurendo gli strumenti a disposizione, in una situazione simile a quella fronteggiata dalla Banca del Giappone dieci anni fa: «Non importa quanto la Fed prometta di tener bassi i tassi. Famiglie e business che soffrono per un eccesso di debito non possono trarne vantaggio finché non porranno rimedio alla situazione patrimoniale ed elimineranno l'eccesso di debito che grava su di loro». Vale il concetto da lui coniato di «recessione da balance-sheet», diversa da quelle ordinarie: determinata dal declino dei prezzi degli asset, paralizza i prestatori e gli assuntori di debito e non può essere curata dalla politica monetaria, neanche se questa fissasse target su prezzi e inflazione.

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Tags Correlati: Banca del Giappone | Bill Gross | Fed | Richard Koo |

 

Koo scuote la testa davanti agli umori del Congresso: «Politici e media concentreranno sempre l'attenzione sui più piccoli segni di titubanza delle banche a prestare. La causa primaria dei problemi è l'insufficiente richiesta di prestiti, anche a tassi favorevoli, legata alla volontà di ridurre gli indebitamenti». Il presidente della Fed ha dichiarato che il governo dovrebbe prendere in considerazione l'idea di iniettare più capitale nelle banche medie e piccole, ma i politici «non hanno dimenticato quanto sia stata impopolare il salvataggio da 700 miliardi di dollari delle grandi banche». Eppure «il Giappone ha potuto superare il suo credit crunch solo con due grandi infusioni di capitale, nel marzo 1998 e nel marzo 1999: gli Usa potrebbero dover ricorrere a una misura simile», sottolinea Koo, secondo il quale, in alternativa, la Fed potrebbe considerare di acquistare debito subordinato delle banche, come deciso dalla Boj dopo il collasso Lehman.

Koo paventa una fine prematura degli stimoli pubblici all'economia, indispensabili per uscire dalle recessioni balance-sheet. Un invito che estende ai paesi più deboli dell'Eurozona, tra cui l'Italia: un eccessivo focus sul consolidamento fiscale – come nel governo Hashimoto nel '97 – provocherebbe una recessione e aggraverebbe lo stato delle finanze pubbliche.
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