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Commenti e Inchieste

L'onda lunga della Germania

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Questo articolo è stato pubblicato il 15 agosto 2010 alle ore 08:01.

Tra le previsioni contrastanti che si rincorrono sul destino della ripresa globale in corso, apparentemente destinata a rallentare nei prossimi mesi, spicca il dato sulla crescita tedesca nel secondo trimestre dell'anno, con un aumento del 2,2% rispetto al trimestre precedente. Il dato batte le stime degli analisti che avevano previsto in media un rialzo intorno al +1,3 per cento. Anno su anno la crescita è del 4,1%, più del doppio di quanto Eurostat ha appena stimato per l'Unione monetaria. La performance delle esportazioni è alla base del risultato.

L'economia della Germania sta crescendo al ritmo più veloce dalla riunificazione: si deve quindi parlare di un "miracolo tedesco"? Non necessariamente, perché vi sono ragioni antiche e cause più recenti che spiegano questo exploit. Tra le prime, la struttura delle imprese industriali tedesche, in media assai più grandi e produttive di quelle italiane, anche a parità di settori merceologici: si tratta del cosiddetto Mittelstand, dove si trovano i campioni nascosti dell'industria tedesca. Medie imprese che riescono meglio delle piccole a conquistare e difendere quote di mercato in Asia e nelle Americhe la cui ripresa si va manifestando più forte, poiché sopportano meglio i costi dell'internazionalizzazione (logistica, reti di vendita, avviamento di relazioni commerciali, eccetera).

Pesa poi la composizione settoriale dell'industria tedesca, meno esposta nei comparti "tradizionali" dove la dinamica della domanda è in media più bassa, e la concorrenza dei paesi emergenti più consolidata (pur se è vero che il quadro delle specializzazioni internazionali va rapidamente mutando, e va analizzato con maggior dettaglio). Com'è noto, un traino forte per la crescita tedesca è l'export di macchinari verso i paesi emergenti.

Un'altra motivazione del successo tedesco va fatta risalire all'epoca del post-unificazione e delle decisioni relative all'allargamento della Ue, attorno alla metà degli anni 90. Ebbe inizio in quel periodo un "movimento verso Est" dell'industria tedesca che per anni alimentò un dibattito acceso tra gli industriali, i politici e gli economisti. L'industria tedesca colse l'occasione dell'allargamento per delocalizzare in Polonia, Slovacchia, Repubblica Ceca, Ungheria quei segmenti di produzione a più alta intensità di lavoro che penalizzavano la competitività delle proprie merci. La parità uno-a-uno tra marco occidentale e orientale non sempre rendeva conveniente quella stessa operazione nei Länder orientali. Alcuni analisti scrivevano in quegli anni che la Germania era diventata un'«economia da bazar», con merci prodotte a basso costo altrove che venivano importate, confezionate e rivendute all'estero, e che il valore aggiunto realizzato in Germania era scarso. L'alta disoccupazione che ha contraddistinto l'economia tedesca per oltre un decennio, questione non risolta, sembrava accreditare questa tesi.

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Ma si è compreso col tempo che vi era un risvolto diverso delle delocalizzazioni: le imprese tedesche diventavano più produttive, riuscivano meglio a competere con quelle dell'Asia anche in comparti maturi, e gradualmente alimentavano anche la domanda domestica di lavoro specializzato. Come scrive Beda Romano sul Sole 24 Ore solo nel giugno 2010 e nel solo settore metalmeccanico tedesco mancavano all'appello 35.400 ingegneri.

Tra le cause più recenti, le riforme del mercato del lavoro (i celebri "pacchetti Harz") che hanno tolto un po' di gesso alle relazioni industriali e al sistema di welfare, ma soprattutto gli accordi aziendali e di categoria tra imprese e sindacati che hanno perseguito un equilibrio tra salario reale, investimenti in capitale fisico e immateriale, livelli d'occupazione e produttività del lavoro: nessuna chimera di "variabili indipendenti" da inseguire, insomma. Infine, un sistema pubblico-privato molto efficiente di promozione, sostegno e consolidamento dell'export, specie nei mercati più lontani e difficili.

Nessun miracolo, dunque, o forse sì se guardiamo al nostro paese, dove pure l'export sta alimentando la ripresa della produzione industriale, che beneficia della crescita tedesca ancor più della media dell'Eurozona, ma che molto avrebbe da imparare dalla Germania: ce ne sarebbe per tutti, imprese, sindacati, pubblica amministrazione. Ma almeno su un punto vale la pena di tornare: com'è possibile che nel mezzo di una delle contese più aspre che si ricordino sui mercati globali, il ripensamento (e il rifinanziamento) dei nostri enti di promozione e supporto dell'export sia ancora lettera morta?

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