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Cossiga democristiano d'Occidente

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Questo articolo è stato pubblicato il 18 agosto 2010 alle ore 09:26.
L'ultima modifica è del 18 agosto 2010 alle ore 09:27.

Si dice che Henry Kissinger, dopo aver conosciuto Francesco Cossiga, commentasse stupito: «Non sembra proprio un democristiano». E voleva essere un gran complimento, perché è noto che Kissinger amava poco i politici italiani, soprattutto i democristiani.
In realtà il giudizio non era esatto, perché Cossiga fu a lungo un democratico-cristiano convinto. C'erano la profonda fede cattolica e la lunga militanza a confermarlo. Non avrebbe potuto essere niente di diverso negli anni della ricostruzione e della guerra fredda.

Tuttavia Cossiga era soprattutto un uomo dell'occidente, cosa che non si poteva dire di tutti i democristiani. E uomo dell'occidente voleva dire amico dell'America e di Israele, sostenitore delle democrazie liberali e del loro sistema di alleanze (la Nato), ammiratore degli statisti che hanno fatto la storia del Novecento (da Churchill a De Gaulle). Questo non basta a definire la complessità dell'uomo, i suoi paradossi e le sue contraddizioni, che furono grandi quasi quanto la sua coerenza di fondo. Spiega però le ragioni per cui gli Stati Uniti guardarono sempre a lui con amicizia, prima, e gratitudine, poi.

A Cossiga gli americani dovevano la decisione italiana di accogliere gli euromissili, all'inizio degli anni Ottanta, alla pari con la Germania di Helmut Schmidt. E dovevano, in tempi più recenti, l'operazione politica che schierò l'Italia in prima fila nella guerra dei Balcani, con D'Alema a Palazzo Chigi, sul finire degli anni Novanta.

Si tratta di un passaggio cruciale. Il presidente della Repubblica contro cui i post-comunisti del Pds, nel '91, avevano chiesto la messa in stato d'accusa per alto tradimento è lo stesso personaggio che qualche anno dopo, da autorevole notabile, determina l'ascesa alla presidenza del Consiglio, per la prima e finora unica volta, di un esponente di quel partito. Che subito si trova - ecco un altro paradosso della storia - a guidare il paese in un conflitto armato intrapreso dalla Nato.

È un esempio del gusto di Cossiga per la politica. O per meglio dire, della politica alta, quella in cui gli interessi non sono mai più forti delle idee e in cui ci sono da riannodare fili e aprire nuovi scenari. Sappiamo come Cossiga amasse svolgere questo ruolo, con il piacere tardivo di chi si scopre protagonista non senza una punta di esibizionismo.

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Tags Correlati: Aldo Moro | De Gaulle | Democrazia Cristiana | Francesco Cossiga | Helmut Schmidt | Henry Kissinger | Nato | Partiti politici | Partito Comunista Italiano | Partito Democratico della Sinistra | PDL |

 

Sotto questo aspetto il cosiddetto «picconatore», l'uomo che da capo dello Stato si dedica con eccezionale asprezza a demolire il sistema politico, è una figura tragica e mai banale. Ha sofferto i drammi della storia repubblicana, ha vissuto e pagato di persona la tragedia di Aldo Moro, conosce i lati oscuri del potere, ne ha intravisto il volto demoniaco. Qualcuno dice che è il depositario dei «segreti di Stato», degli infiniti misteri veri o presunti che scandiscono la vicenda italiana.

Ma è proprio così? Certo, Cossiga conosce molte cose, ma soprattutto è un uomo delle istituzioni. Un uomo che vive con intensità la sua scelta liberale, la fiducia in un occidente che sa rinnovarsi proprio perché è fondato sulla libertà. Da presidente della Repubblica, anche quando si scaglia con violenza contro il suo ex partito, la Dc, e contro il Pci-Pds, Cossiga non si presenta mai come un adepto dell'anti-politica.

È vero il contrario: è un politico di formazione classica quello che vede i limiti della Prima Repubblica, all'indomani della caduta del muro di Berlino, e si sente mosso da una febbrile ansia di rinnovamento. L'ansia con cui spinge le forze politiche a modificare la Costituzione e lo fa, senza gran successo, con argomenti spesso troppo aspri, urticanti e offensivi. Ma la sua è sempre un'azione politica, del tutto onesta sul piano intellettuale e priva di cedimenti demagogici.

Ecco perché la figura del presidente «picconatore» rimane nonostante tutto assai più vicina ai personaggi del dopoguerra, la generazione dei Moro e dei Fanfani, e prima ancora dei La Malfa, dei Saragat, dei Malagodi, di quanto non sia prossima ai nuovi protagonisti della malcerta Seconda Repubblica. Sotto questo aspetto, quando il Pdl tenta di accreditare Cossiga come un precursore della fase che stiamo vivendo, commette un parziale abuso. Giustificabile, ma pur sempre abuso. In primo luogo perché Berlusconi è stato abile nel calvalcare l'onda dell'anti-politica, mentre il presidente emerito, come si è detto, era tutt'altro. E in secondo luogo perché Cossiga, se avesse potuto, avrebbe costruito una Seconda Repubblica fondata su istituzioni forti, rispettose della storia e delle forze politiche che ne sono state protagoniste.

S'intende, questo fallimento pesa nella biografia di un uomo che seppe destrutturare un sistema ingessato e statico, ma non fu altrettanto efficace come architetto di un nuovo modello. La Seconda Repubblica adombrata da Cossiga con accenti vagamente gollisti fu sempre uno schema intellettuale, non ebbe mai la possibilità di calarsi nella realtà. Mancavano gli uomini e le forze per compiere l'impresa e Cossiga stesso sopravvalutò se stesso o forse sottovalutò la complessità del caso italiano.

Comunque non seppe o non volle mettersi alla testa della seconda ricostruzione, dopo quella post-bellica. Forse in cuor suo sapeva che il suo compito si esauriva nella fase demolitrice. O forse pensava che non ne valesse la pena. Di fatto Cossiga ha trascorso gli ultimi anni indicando con estrema lucidità e crescente amarezza, da quel pessimista che era, gli errori e le incongruenze di una classe politica mediocre e sempre più modesta. Chiudendosi via via al mondo, nella solitudine che in fondo è stata sempre la sua caratteristica e la sua difesa. E oggi riceve l'omaggio unanime, anche stavolta un po' paradossale, di coloro che egli combattè e spesso sbeffeggiò.

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