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L'ascesa della Cina e il lassismo degli Usa

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Questo articolo è stato pubblicato il 22 agosto 2010 alle ore 14:22.

Il Giulio Cesare di Shakespeare preferiva circondarsi di uomini pasciuti perché riteneva pericolosi gli uomini magri e affamati. Applicando lo stesso principio alle relazioni internazionali, la notizia di questa settimana che la Cina ha superato la seconda economia mondiale, il Giappone, in termini di prodotto interno lordo nominale, dovrebbe essere accolta con favore dal resto del mondo. Purtroppo, però, il Pil nominale non riflette efficacemente ciò che costituisce uno stato soddisfatto e non minaccioso. Il reddito pro capite è un indicatore migliore, per quanto imperfetto.

E dato che il reddito pro capite della Cina, pari a 3678 dollari, è ancora meno di un decimo di quello giapponese, Cesare avrebbe tratto poco conforto da questo sorpasso epocale: la Cina resta chiaramente un paese molto povero, nonostante lo spettacolare tasso di crescita recente.

La pericolosità dei grandi passaggi di potere nell'economia globale è un fatto storico inquietante. Tendenzialmente coincidono con gravi sconvolgimenti finanziari, turbolenze valutarie e attriti commerciali, derivanti dal fatto che l'aspirante ultimo arrivato di solito è un paese creditore con inclinazioni protezionistiche, restio ad accollarsi una responsabilità internazionale commisurata alla sua forza economica.

Un buon esempio è la transizione dall'egemonia britannica a quella statunitense dopo la prima guerra mondiale. Dopo il 1918 gli Stati Uniti rigettarono il Trattato di Versailles, scelsero di non aderire alla Lega delle Nazioni e non ebbero alcun ruolo nell'imposizione di risarcimenti alla Germania, pur incassando i debiti di guerra dagli alleati. L'atteggiamento liberale del Regno Unito sul piano economico consentì agli Stati Uniti di accumulare un ragguardevole surplus commerciale. Intanto, la giovane e inesperta Federal Reserve perseguiva politiche monetarie accomodanti nei ruggenti anni Venti, cercando poco saggiamente di sostenere la sterlina, all'epoca in affanno.

Il tardivo scoppio della bolla frutto di questo clima, innescato dalla Fed nel 1929, mise improvvisamente fine all'Era del jazz, lasciando spazio al crollo delle banche e alla depressione. Dopo aver esportato il problema della carenza di domanda nel resto del mondo, gli Stati Uniti non furono in grado di fare da guida per evitare un'epidemia di disastrose svalutazioni competitive e si mostrarono poco propensi ad assumere il ruolo di prestatori globali di ultima istanza alle banche in caduta libera.

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Tags Correlati: Bilancia commerciale | Charles Dumas | Cina | Fed | Francesca Marchei | Giappone | Giulio Cesare | Stati Uniti d'America

 

La sfida cinese agli Stati Uniti è altrettanto imperniata sulle esportazioni e l'attuale avanzo delle partite correnti è il principale fattore all'origine dell'eccesso di risparmio eurasiatico che ha portato alla bolla del credito e agli squilibri globali sottesi alla crisi finanziaria. Il modello economico della Cina, a dispetto del suo successo, genera sprechi in termini di sovrainvestimento e ricadute positive limitate per la gente comune, cui è riconducibile il livello di consumi privati più basso come quota del Pil asiatico. In un paese che vanta tassi di crescita a due cifre, l'occupazione aumenta a un ritmo misero dell'1% l'anno, mentre i rendimenti reali sui risparmi sono negativi. Come accaduto nel Giappone all'apice del successo, l'economia offre una qualità della vita più bassa di quanto suggeriscano le cifre sul reddito pro capite, con i rischi per la salute determinati dall'inquinamento, dai cibi adulterati e dalle condizioni di lavoro sfavorevoli.

La crescita cinese trainata dall'export, e alimentata da un renminbi sottovalutato, è stata possibile solo perché gli Stati Uniti e altri paesi indebitati hanno accettato livelli di debito elevati per finanziare i consumi privati e, ora, la spesa pubblica. Il problema è che gli squilibri così generati non sono sostenibili, in quanto ormai siamo vicini al punto di esaurimento del debito. Eppure, come sostiene Charles Dumas di Lombard Street Research in Globalisation Fractures, un nuovo libro sull'incompatibilità delle politiche dei principali paesi industriali, la risposta politica alla crisi si è concentrata quasi esclusivamente sugli aspetti finanziari, tralasciando gli squilibri globali.

Ciò che serve a livello mondiale è un riequilibrio delle economie, sia nei paesi debitori, dove bisognerebbe risanare i conti pubblici, sia in quelli creditori, dove è essenziale stimolare i consumi interni, consentire la fluttuazione delle valute e ridurre la dipendenza dalle esportazioni. Ne trarrebbe vantaggio anche la Cina, considerando l'attuale squilibrio della sua economia e l'impossibilità per il governo cinese di prevenire l'inflazione e le bolle dei prezzi delle attività, finché continuerà a mantenere il tasso di cambio artificialmente basso.
E poi, c'è l'impasse politica cinese. Come può il mondo sfuggire alle potenziali conseguenze economiche nefaste di questa situazione? Uno degli scenari prefigurati è una sorta di scappatoia: gli Stati Uniti rispondono a un imminente rallentamento dell'economia con politiche fiscali e monetarie più espansive, a costo di accumulare ancora altro debito preparando il terreno a una successiva contrazione. Un'ipotesi alternativa vede l'adozione negli Stati Uniti di un maggior rigore fiscale, che eviti l'espansione del debito, associato a una politica monetaria ancora accomodante, una combinazione in grado di ridurre il disavanzo delle partite correnti americane in tempi relativamente brevi.

In ogni modo, i rischi di un rigurgito protezionista nei confronti della Cina sarebbero destinati ad aumentare. In entrambi i casi, i paesi creditori del mondo alla fine assisterebbero al prosciugamento del loro mercato principale. L'unica vera differenza sarebbe il tempo necessario per arrivare a questo esito. La domanda, a questo punto, sorge spontanea: quando si sveglieranno i creditori?

(Traduzione di Francesca Marchei)

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