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Senza tregua non c'è crescita

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Questo articolo è stato pubblicato il 24 agosto 2010 alle ore 08:34.
L'ultima modifica è del 24 agosto 2010 alle ore 08:05.

Sono un imprenditore, il mio mestiere è correre il rischio dell'investimento, la mia responsabilità è ridurre quanto possibile le incertezze sul suo impiego effettivo; stipulo, con un sindacato che rappresenta la maggioranza dei lavoratori, un contratto che prevede misure efficaci contro l'assenteismo abusivo e definisce il quadro entro cui si esercita il diritto di sciopero: che garanzie ho che il contratto venga rispettato?

Oggi, in Italia, la risposta è: nessuna. In assenza di regole adeguate sulla cosiddetta "clausola di tregua", ogni singolo lavoratore può aderire a qualsiasi sciopero anche se diretto contro un contratto di cui beneficia e anche se proclamato da un comitato che rappresenta lo 0,1% del personale interessato. Per di più, se il contratto aziendale contiene una deroga al contratto nazionale, è alta la probabilità che un giudice del lavoro la disapplichi. Questo è il problema posto da Sergio Marchionne a Pomigliano. In termini generali: rimaniamo legati al modello "anni 70" della conflittualità permanente, quello delle contrapposizioni rigide, delle botte e risposte, degli strascichi giudiziari, che si portano dietro le relazioni industriali quali finora abbiamo conosciuto, e a cui ci riporta il caso Melfi, oppure costruiamo un nuovo sistema di relazioni industriali in cui un sindacato maggioritario possa contrattare in azienda un piano industriale innovativo, con effetti vincolanti per tutti i dipendenti, come avviene in tutti gli altri paesi occidentali?


La Fiom cala la pregiudiziale: "clausola di tregua" uguale "limitazione del diritto di sciopero", quindi da rifiutare. Lo sciopero non si tocca, scioperare è un diritto inalienabile della persona. Ma tutti i diritti del singolo trovano un limite nel diritto degli altri e nei contratti che il singolo stipula. Se la mia libertà di andare a spasso e di disporre a piacimento del mio tempo dovesse anche intendersi come diritto ad andare a lavorare quando voglio, le conseguenze sulla disponibilità di beni e servizi renderebbero impossibile il vivere civile come lo conosciamo. Per la Fiom, la pregiudiziale ideologica è la linea Maginot, il territorio che essa difende è l'attuale sistema di relazioni industriali. Si invocano i diritti dell'individuo, quello che si vuole impedire è che a tutti i lavoratori di un'azienda si applichi un contratto aziendale voluto dalla maggioranza, anche se in deroga ai principi generali del contratto nazionale.

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Tags Correlati: Cisl | Confindustria | Fiat | Imprese | Italia | Lega | PD | PDL | Sergio Marchionne | Uil

 


La "clausola di tregua" si può regolare per legge, conformemente a quanto prevede l'articolo 40 della Costituzione (il diritto di sciopero si esercita nell'ambito delle leggi che lo regolano), come è avvenuto con la legge del 1990 sugli scioperi nei servizi pubblici, la cui legittimità costituzionale non è mai stata messa in dubbio. Oppure per accordo confederale firmato anche dalla Cgil-Fiom. Ma la Cgil è riluttante a compiere questo passo, anche se tradizionalmente è favorevole al principio di democrazia sindacale. La Cisl si oppone a farlo per legge: la contrattazione tra le parti le conferisce un maggior ruolo politico. Fiat pensa di tagliare il nodo alla radice, facendo di Pomigliano una Newco fuori dal contratto nazionale, in cui quindi valga solo il contratto aziendale, ma in questo modo non risolve il problema: neppure la Newco evita che lo sciopero dello straordinario già proclamato dai Cobas fino al 2014 renda di fatto impossibile il 18esimo turno. Confindustria appoggia il principio, però non è entusiasta che, per applicarlo, Fiat e i suoi fornitori escano dall'associazione.


E poi c'è l'interesse del paese. Un paese tra gli ultimi quanto a capacità di attrarre investimenti diretti esteri, che portano anche nuove conoscenze, produttive e organizzative. Un paese in cui anche per questo la produttività non cresce: contratti in deroga possono significare maggiore produttività, dunque maggiori stipendi e salari. Un'impresa che decide un investimento, per prima cosa fa i conti con il mercato del lavoro. Lentezza della giustizia, farraginosità della Pa, mano della criminalità contano eccome, ma vengono dopo, richiedono riforme complesse e lunghe: a maggior ragione si faccia questa che è una riforma facile, nell'interesse dei lavoratori, invisa solo alle burocrazie sindacali (e confindustriali).


Il governo non vuole sentir parlare di legge: probabilmente pensa che così si leverebbero le castagne dal fuoco alla Fiom, e che convenga di più logorarla con la Newco. E se questo lascia spazio alla conflittualità, costa solo alla Fiat. In un'opposizione che sembra avere accantonato ogni prospettiva programmatica per il solo obbiettivo di cacciare Berlusconi, il Pd potrebbe anche trovare conveniente lo stallo, un appoggio verbale alla Fiat, ma nulla che rischi di far perdere voti a sinistra: quanto resta nel Dna di interesse ai temi del lavoro e dei rapporti di produzione resisterà anche a questo. Sarebbe una posizione riduttiva e miope. Riduttiva perché sono lavoratori quelli che, a volte anche in maggioranza, preferiscono farsi rappresentare da Cisl e Uil; ormai per due terzi, nelle aziende private del Nord, al Pd preferiscono la Lega e il Pdl. Miope perché solo chi si fa carico dell'interesse generale può aspirare a posizioni di leadership, e queste sono le occasioni per dimostrarlo. Erano inizialmente aborriti a sinistra alcuni pilastri del nostro sistema che oggi nessuno si sognerebbe di mettere in discussione: dalla contrattazione aziendale al part-time, dalle agenzie private di collocamento e di lavoro temporaneo alle politiche salariali anti-inflazione. Ma a volte la storia non insegna nulla.

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