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Quell'evasione carsica emerge ogni estate

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Questo articolo è stato pubblicato il 27 agosto 2010 alle ore 08:21.
L'ultima modifica è del 27 agosto 2010 alle ore 08:08.

Avviene periodicamente che giornali e telegiornali italiani presentino, quasi fosse ogni volta uno scoop, alcuni dati sull'evasione fiscale in Italia. Normalmente accade in estate, quando le notizie latitano ed è forse più facile ottenere l'attenzione di chi legge. Non mancano tabelle e interviste a corredo della (non) notizia, ma dopo pochi giorni il tutto viene regolarmente superato e dimenticato.


Poco sembra essere cambiato negli ultimi trent'anni. Alla fine degli anni Settanta alcuni quotidiani cominciarono a pubblicare le liste dei contribuenti che avevano dichiarato redditi inferiori a quelli accertati dal fisco, contenuti nel famoso Libro rosso dell'allora ministro delle Finanze Franco Reviglio. Nei toni e nei commenti non c'è molta differenza tra quegli articoli e quelli che, molto di recente, hanno riguardato le superstar dell'evasione. Per quanto la curiosità pubblica sia comprensibile, e in un certo senso anche auspicabile, essa sembra riflettere due atteggiamenti, egualmente facili ma egualmente sbagliati.
Il primo è rappresentabile come la sindrome del «tutto è sempre uguale sotto il nostro cielo»: l'Italia sarebbe quasi costituzionalmente destinata a dividersi nel popolo dei furbi e in quello dei vessati, senza che nuove leggi o campagne di sensibilizzazione abbiano cambiato e possano mai cambiare la situazione. Il secondo atteggiamento è riassumibile dall'idea che «in fondo in fondo tutti siamo un po' evasori», cioè che l'evasione sia una caratteristica intrinseca del nostro paese, della nostra storia e cultura, e che, tutto sommato, sia giustificata o giustificabile dall'alto livello di tassazione, dalla scarsa efficienza della pubblica amministrazione e dagli sprechi nella spesa pubblica.


Purtroppo questi atteggiamenti, che potremmo definire rispettivamente catastrofista e relativista, prevalgono anche nell'opinione pubblica, che dovrebbe essere maggiormente informata, e nell'opinione politica, che al contempo riflette e forma la stessa opinione pubblica. Secondo la teoria economica dominante, i meccanismi di mercato e la volontà individuale che li determina dovrebbero essere lasciati liberi di agire. Ogni euro è tendenzialmente speso meglio da un individuo (consumatore o produttore che sia) che non dallo stato. Inoltre lo stato, per ottenere un euro, deve sottrarre, a causa dell'inefficienza delle imposte, più di un euro al contribuente.

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Tags Correlati: Debito pubblico | Franco Reviglio | Italia | Mauro Maré | Pubblica Amministrazione

 

L'imposizione fiscale, quindi, è distorsiva e l'evasione potrebbe essere, più che un problema in sé, il sintomo di un problema del tutto diverso: l'eccesso di presenza dello stato in economia. Questo potrebbe portare a considerare l'evasione come un problema esclusivamente di tipo morale e politico. Tuttavia, ciò non sarebbe corretto per almeno tre ordini di ragioni.


In primo luogo, anche volendo dare retta alla teoria economica prevalente, secondo cui il mercato è sempre più efficiente, non si può negare che esistano beni e servizi che è preferibile, per diverse ragioni, siano prodotti dallo stato piuttosto che dal mercato. Si tratta, innanzitutto, di servizi quali la difesa, la giustizia, la sanità, l'istruzione e le pensioni. Innanzitutto bisogna saper ricostruire i fondamenti di un discorso pubblico sull'evasione. L'affermarsi delle nuove incertezze connesse all'economia della globalizzazione ha determinato la nascita di una vera e propria società del rischio lavorativo, reddituale, sanitario e, più in generale, sociale. In questa nuova società vi sono beni e servizi che lo Stato deve produrre, sebbene non necessariamente gli stessi o non necessariamente nelle stesse quantità rispetto a quelli tradizionalmente pubblici, e quindi si dà per scontato un certo livello di tassazione. Ne segue che l'evasione fiscale è un problema del tutto attuale, anche per un welfare state moderno, per quanto ambigua e scivolosa sia quest'ultima espressione. È bene ricordare che, secondo le stime a suo tempo presentate da Alberto Alesina e Mauro Maré, il rapporto tra debito pubblico e Pil in Italia sarebbe potuto essere inferiore di poco meno di 30 punti percentuali nel 1992 se gli italiani avessero evaso le imposte in misura pari agli americani.


La seconda ragione per cui l'evasione fiscale può diventare patologica è legata alla natura stessa della concorrenza. Questa, per definizione, è possibile solo tra soggetti che operano osservando le stesse regole e partendo da condizioni di parità. È evidente che ciò non può avvenire se qualcuno è in grado di evadere più dei suoi concorrenti e di ricevere così una sorta di sovvenzione occulta da parte dello Stato. Non si deve pensare che questo sia solo un ragionamento astratto, perché molte politiche di contrasto all'evasione – ad esempio, in Italia, gli studi di settore – hanno come obiettivo, dichiarato o implicito, di rendere uniforme l'evasione tagliando, per così dire, le punte più estreme.
Il testo è uno stralcio dell'articolo
che apparirà sul prossimo numero del Mulino

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