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Università, serve una riforma per cancellare i conflitti d'interesse

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Questo articolo è stato pubblicato il 30 agosto 2010 alle ore 10:21.

Uno degli aspetti più importanti da valutare nella riforma universitaria in discussione in parlamento, è la sua capacità di ricreare nel sistema universitario condizioni di competizione per la qualità. Occorre comprendere se riuscirà a spingere le università ad attrarre giovani ricercatori offrendo buone possibilità di carriera su base competitiva. Se quindi correggerà il trend che si protrae ormai da troppo tempo, nel quale l'appiattimento delle posizioni interne è stato accompagnato da un preoccupante esodo di ricercatori promettenti che hanno trovato all'estero migliori opportunità di carriera.
Nello scorso decennio il numero - troppo elevato - di promozioni interne alle università ha modificato le proporzioni tra ordinari, associati e ricercatori fino a costituire una situazione di quasi parità numerica tra le categorie: la tipica "piramide" dei ruoli è andata distrutta a causa del prevalere delle promozioni interne alle stesse università. Ancora oggi la maggior parte delle carriere avviene per progressione interna.

Per correggere questo squilibrio, due anni fa la legge 190 ha introdotto un vincolo stabilendo che le proporzioni tra le categorie interne debbono essere: 60% di ricercatori, 30% di associati e 10% di ordinari e personale tecnico. Due anni di funzionamento di questa norma stanno ripristinando la struttura a piramide, ma non hanno rimosso le cause della distorsione. Si sono creati problemi collaterali: almeno una parte di coloro che vinceranno i concorsi attualmente in atto (per associato o per ordinario) avrà difficoltà a trovare un collocamento immediato.
Con l'approvazione della legge di riforma Gelmini la norma (190) sarà soppressa. La nuova legge, pur con un intento condivisibile, impone nuovamente dei vincoli, stabilendo che la proporzione tra chiamati dall'esterno e promozioni interne sia 60\40.
La strada più efficace sarebbe invece quella di eliminare i motivi delle distorsioni e costruire gli incentivi corretti. Questa via è percorribile una volta compreso che le distorsioni sono originate da due effetti. In primo luogo, le chiamate di nuovi posti, e le promozioni, sono decise dai consigli di facoltà, ove prevalgono gli interessi ad appoggiare gli interni. Il secondo elemento è il costo: una promozione interna costa molto meno di una chiamata esterna e dunque è facile gioco sostenere la convenienza di questa scelta, anche se in realtà questa convenienza è tale solo nel breve periodo.

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Quest'ultima distorsione peraltro nasce dal modo in cui i fondi ministeriali sono distribuiti tra le università: se un professore si sposta da una università all'altra, i fondi per il suo stipendio non vengono spostati all'università che lo chiama, che quindi se ne assume per intero il carico finanziario.
Vi sono molti modi per correggere questa difficoltà, tutti fondati sull'idea di appoggiare finanziariamente le chiamate di esterni, purché effettuate sulla base di valutazione di qualità. Si potrebbe per esempio trasferire, con il professore, almeno una quota dei fondi per il suo stipendio all'università che lo vuole reclutare (nel mondo anglosassone il professore/ricercatore porta con sé i propri fondi di ricerca); questo renderebbe equivalente il costo economico di una promozione interna rispetto a quello di una chiamata e permetterebbe di ripristinare la mobilità tra atenei.
Qualunque sia la via scelta, e tenendo conto che per essere efficace deve fondarsi su un finanziamento ad hoc che attenui l'attuale drastica riduzione del fondo ordinario di finanziamento (Ffo), questa soluzione permetterebbe di ridurre le due maggiori distorsioni del sistema universitario: la scarsa mobilità tra atenei e la bassa capacità di contendersi i migliori ricercatori.

megidi@luiss.it

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