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Il liberismo rialza la testa

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Questo articolo è stato pubblicato il 31 agosto 2010 alle ore 09:00.
L'ultima modifica è del 31 agosto 2010 alle ore 09:25.

Sono rimasti attoniti, per un po'. Il mercato li tradiva, la deregulation mostrava i suoi limiti, ai magici equilibri delle teorie si sostituiva il caos. Uno di loro, il giurista Richard Posner, aveva quasi abiurato con il suo saggio Come sono diventato un keynesiano (pur dedicato più all'analisi che alle politiche).


Ora però gli economisti americani amanti del libero mercato sono pronti a rialzare la testa. E, se si escludono estremismi e ideologie, avanzano argomenti solidi per mostrare che dietro le turbolenze finanziarie c'è (anche) la mano dello stato. Non può sfuggire, del resto, che una delle più diffuse spiegazioni della crisi è in perfetto stile "liberista". John Taylor della Stanford University non ha forse dimostrato, in Getting Off Track, che la Fed è stata troppo espansiva dal 2002 in poi, si è allontanata dalla "regola d'oro" della politica monetaria (la regola... di Taylor) e ha alterato le quotazioni finanziarie?

Accusare Alan Friedman, a inizio 2009, non appariva però né originale né liberista: l'ex presidente della Fed era l'uomo che aveva creduto nella capacità del mercato - nel suo caso occorrerebbe dire: delle aziende - di autoregolamentarsi. Legata in modo più evidente ai "fallimenti dello stato" è un'altra idea: quella che cerca la causa della crisi nella politica della ownership society, la società della proprietà, legata al nome di George W. Bush anche se iniziata da Bill Clinton: l'idea di risolvere le crescenti difficoltà della classe media con la scorciatoia dei mutui a costi vantaggiosi. La febbre dei subprime è nata così, alterando il rapporti tra rischi e tassi dei prestiti.

È una spiegazione solida, che è stata raccolta dal più lucido degli economisti della scuola di Chicago (una delle culle dei liberisti d'America): Raghuram Rajan, che non ha mai avuto paura, fin dal 2005, di attirare l'attenzione sia sul tema, ormai scabroso, delle diseguaglianze economiche, sia su quello dei comportamenti "perversi" di aziende e manager. In Fault Lines, Rajan aggiunge un altro particolare: sostenute dal governo, le maxiagenzie di mutui Fannie Mae e Freddie Mac sono state anche finanziate generosamente da un investitore non certo privato, e quindi meno attento ai rischi, la Banca del Popolo cinese, affamata di titoli Usa per le sue riserve in dollari.

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Tags Correlati: Ayn Rand | Chicago | Concorrenza | Fannie Mae | Fed | Freddie Mac | George W. Bush | James Hamilton | Karl Popper | Raghuram Rajan | Richard Posner

 

Qualcuno va anche oltre, e inverte quelle che sono considerate la causa (la crisi finanziaria) e l'effetto (la recessione). A disposizione ci sono gli studi di James Hamilton: ogni crisi americana, anche l'ultima, è stata preceduta - spiegano - da un insostenibile rialzo del petrolio, un settore in cui la produzione è solidamente in mani pubbliche. Far ricorso a questa analisi - che mostra la multidimensionalità della crisi - è in realtà un po' un'arma a doppio taglio. Il record dei 147 dollari al barile di luglio 2008 non fu forse determinato, secondo l'economista dell'Università di California, dalla speculazione; ma comunque da un errore degli investitori: credettero, in base alle esperienze passate, che gli Usa avrebbero ridotto i consumi (cadendo in crisi...) ma non la domanda di energia. Spinsero così in alto i prezzi dei futures, per ritrovarsi beffati dalla realtà.

A dare davvero coraggio ai liberisti sono però le difficoltà della politica fiscale di Barack Obama: la crisi non ha certo spazzato via le teorie sui fallimenti dello stato. In questo campo l'aspetto più interessante è però forse l'esame delle nuove regolamentazioni. Perché questo lavoro invita gli economisti a "smontare" quella retorica che vede il neoliberismo - la politica nata con Thatcher e Reagan - identificarsi con la deregulation e non con la definizione di regole "diverse": se «si scambiano diritti, non beni», come insegna Ronald Coase (dell'Università di Chicago...), le norme sono necessarie. Da queste analisi emerge che il settore finanziario, e non solo, si regge (e si reggerà) su troppe protezioni legali - dalle banali garanzie sui depositi alle garanzie implicite di salvare le imprese "troppo grandi per fallire" - che alterano prezzi e quantità offerte di servizi, e incentivano comportamenti perversi.

A questo punto la scienza si scontra però con l'ideologia. I liberisti/libertari Usa, nel tea party, ma a volte anche nell'università, sono ancora legati a due autori estremi. Ayn Rand (1905-1982), autrice di La minoranza perseguitata degli Usa: il big business, invita a pensare che l'individualismo si identifichi con l'egoismo - il filosofo Karl Popper ha spiegato che non è così - e che questo dia alle aziende la stessa efficienza della concorrenza. I monopoli, argomentava quindi un suo allievo, un certo Alan Greenspan, non sono un problema. «Troppo spesso, a causa del lobbying, la difesa del mercato viene confusa con la difesa delle aziende ma esse possono essere in conflitto», ha invece spiegato al blog City Journal Luigi Zingales, docente a Chicago. Il gioco dei mercati, lo sapeva già Adam Smith, è vulnerabile anche a causa dei comportamenti delle imprese.

La corrente antistatalista culminata in Albert Jay Nock (1870-1945), autore di Il nostro nemico, lo Stato - per quanto suggestiva - sta intanto minando la fiducia nella politica, nelle sue istituzioni, e nell'ordinamento giuridico. Anche quando possono essere strumento di libertà ed eguaglianza, i valori della dichiarazione d'indipendenza che i liberisti della prima scuola di Chicago, negli anni 30 e 40 - quelli dell'altra crisi - rispettavano ancora.
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