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Questo articolo è stato pubblicato il 01 settembre 2010 alle ore 09:16.
L'ultima modifica è del 01 settembre 2010 alle ore 09:21.
Sono entrato all'università come ricercatore 35 anni fa e ne sono uscito sempre come ricercatore, senza il minimo avanzamento, un anno fa. Ho scritto 20 libri di cui almeno quattro adottati come testi fondamentali in Italia e all'estero nei corsi di antropologia, di gender studies, di antropologia urbana e di linguistica. Ho fatto cinque concorsi per diventare professore e sono stato respinto in tutti e cinque senza che nemmeno mi arrivasse una comunicazione ufficiale.
Questa mia banale vicenda biografica non avrebbe importanza se non aprisse uno spaccato esemplare sulla storia recente dell'università italiana e se non servisse a quelli più giovani di me a farsi due conti su come vanno le cose nell'accademia. Avrei voluto essere giudicato sui miei lavori, sulle mie ricerche, o magari sull'effetto che i miei corsi facevano agli studenti, corsi che da buon ricercatore ho accettato per decenni di fare sostituendo in questa funzione i pochi professori di ruolo. Ma no, nessun giudizio scientifico o di efficienza. Sulle "opere" c'era una generale concordanza come si fa quando si trattano gli sforzi giovanili di qualcuno strano e un po' fuori dal giro, sull'efficienza il semplice uso. Gli servivo, all'università, per riempire enormi buchi e servire grandi folle: alla facoltà di architettura di Venezia arrivavo ad avere 500 studenti e a fare mille, 2mila esami per sessione. Credo di avere formato almeno quattro generazioni di ricercatori, gente che si è appassionata come me alla relazione tra le scienze umane e la città e con cui sono diventato amico, con cui ho lavorato e continuo a lavorare.
L'esemplarità della mia vicenda accademica l'avrei dovuta subodorare però dall'inizio. Il mio primo direttore d'istituto, Salvatore Boscarino, al dipartimento di architettura dell'università di Catania mi disse accogliendomi: «Spero lei sia di famiglia benestante, perché altrimenti non capisco come potrebbe fare questo lavoro». La mia risposta pratica era che facevo l'autostop per tornare a casa a Palermo alla fine della settimana e che a Catania dormivo nelle ultime stamberghe o addirittura clandestino nelle case in costruzione del padre di uno dei miei studenti.