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Vecchia Europa il tuo tempo è finito

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Questo articolo è stato pubblicato il 01 settembre 2010 alle ore 09:14.
L'ultima modifica è del 01 settembre 2010 alle ore 09:23.

L'Unione Europea sta morendo: non una morte drammatica o improvvisa, ma una morte talmente lenta e prolungata che un giorno non lontano potremmo guardare dall'altra parte dell'Atlantico e scoprire che il progetto d'integrazione europeo, che da cinquant'anni davamo per scontato, non esiste più.
Il declino dell'Europa in parte è economico. La crisi finanziaria ha colpito duramente molti stati membri, e i livelli del debito pubblico e la salute incerta delle banche del continente potrebbero essere presagio di altri problemi in futuro.

Ma sono malanni di poco conto in confronto a una malattia più seria: da Londra a Berlino e a Varsavia, l'Europa sta assistendo a una rinazionalizzazione della vita politica, con gli stati che fanno di tutto per riprendersi quella sovranità che un tempo erano disposti a sacrificare per l'obiettivo di un ideale collettivo.

Per molti europei quel bene superiore sembra non contare più nulla. Si chiedono che vantaggi gli porta l'Unione, e si chiedono se questi vantaggi valgano la fatica. Se queste tendenze proseguiranno, potrebbero mettere a rischio una delle conquiste più importanti e inattese del XX secolo: un'Europa integrata, in pace con se stessa, che si sforza d'irradiare potenza come un insieme coeso. Il risultato sarebbe una serie di singole nazioni condannate all'irrilevanza geopolitica (e un'America privata di un partner disposto o in grado di farsi carico di responsabilità globali).

L'erosione del consenso per un'Europa unita sta contaminando perfino la Germania, che un tempo, con la sua ossessione di mettere al bando le rivalità nazionali che per tanto tempo avevano esposto il continente a una serie di guerre fra grandi potenze, rappresentava il motore dell'integrazione. La recente riluttanza del governo di Berlino ad accorrere in soccorso della Grecia in piena crisi finanziaria (la cancelliera Angela Merkel ha fatto resistenza per mesi ai progetti di salvataggio) ha infranto quello spirito del bene comune che è il marchio di fabbrica di un'Europa collettiva. Solo quando la crisi greca ha minacciato di travolgere l'intera zona euro la Merkel, contro l'opinione popolare, ha dato il via libera al prestito. Nelle elezioni regionali del Nordreno-Vestfalia gli elettori hanno prontamente punito il suo partito, infliggendo ai cristiano-democratici la sconfitta più severa dalla fine della guerra.

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Tags Correlati: Afghanistan | Angela Merkel | Berlino | Catherine Ashton | Elezioni | Forze Armate | Francia | Gran Bretagna | Herman Van Rompuy | Jean Monnet | Jobbik | Konrad Adenauer | Lech Kaczynski | Nato | Olanda | Polonia | Robert Schuman | Stati Membri | Unione Europea

 

Tanta grettezza è un segnale del problema più importante: perseguendo il proprio interesse nazionale, la Germania sta mettendo in disparte il suo entusiasmo per l'Europa. Lo scorso autunno, in uno dei rari segnali di vitalità del progetto europeo, gli stati membri hanno ratificato il trattato di Lisbona, dotando l'Unione di un presidente, di un rappresentante per la politica estera e di un servizio diplomatico. Ma poi Berlino, per ricoprire i due ruoli, ha contribuito alla scelta di personalità di basso profilo (Herman Van Rompuy come presidente e Catherine Ashton come rappresentante per la politica estera) che non minacciassero l'autorità dei leader nazionali. Perfino i tribunali tedeschi l'anno scorso hanno imposto uno stop all'Unione, pronunciando una sentenza che rafforza il potere del Parlamento nazionale rispetto alla legislazione europea.

Questa rinazionalizzazione della politica è un fenomeno che interessa tutta l'Unione Europea. Uno dei segnali più crudi in tal senso arrivò nel 2005, quando in Francia e in Olanda l'elettorato rigettò un trattato costituzionale che avrebbe consolidato il carattere giuridico e politico dell'Unione.

Il Trattato di Lisbona, il surrogato all'acqua di rose della Costituzione, è stato rigettato dall'elettorato irlandese nel 2008. Gli irlandesi hanno cambiato idea nel 2009, ma solo dopo aver ottenuto la garanzia che il trattato non avrebbe messo a rischio il controllo nazionale sulla politica fiscale e la neutralità militare. E in Gran Bretagna le elezioni politiche di maggio hanno portato al potere una coalizione dominata dal Partito conservatore, ben noto per la sua eurofobia.

Nel resto d'Europa, il populismo di destra avanza impetuosamente, spinto innanzitutto dalla reazione anti-immigrati. Questo nazionalismo radicale si scaglia non solo contro le minoranze, ma anche contro la perdita di autonomia prodotta dall'unione politica. Un esempio è il partito Jobbik in Ungheria, una formazione che rasenta la xenofobia e che nelle elezioni di quest'anno ha portato a casa 47 seggi contro i 9 del 2006. Perfino nella storicamente tollerante Olanda recentemente il Partito per la libertà, di estrema destra, ha conquistato più del 15% dei voti, ottenendo solo sette seggi in meno del primo partito.

Come se tutti questi ostacoli già non bastassero a raffreddare gli entusiasmi, a luglio la presidenza a rotazione dell'Unione è toccata al Belgio, un paese dove fiamminghi e valloni sono talmente divisi fra loro che da giugno, quando si sono svolte le elezioni nazionali, non è si è ancora arrivati a formare una coalizione di governo. Il fatto che il paese che in questo momento ha la guida del progetto europeo sia affetto proprio da quell'antagonismo nazionalistico che l'Ue, nelle intenzioni dei suoi creatori, avrebbe dovuto eliminare, la dice molto lunga.

La rinazionalizzazione della politica europea è figlia innanzitutto del cambio generazionale. Per quegli europei che hanno vissuto la Seconda guerra mondiale o la guerra fredda, la Ue è una via di fuga da un passato sanguinario. Ma non è così per gli europei più giovani. Da un recente sondaggio è emerso che tra i francesi al di sopra dei 55 anni la percentuale di coloro che vedono la Ue come una garanzia di pace è quasi doppia rispetto ai francesi con meno di 36 anni. Non c'è da stupirsi che i nuovi leader europei misurino il valore dell'Unione attraverso un freddo calcolo dei costi e dei benefici, invece di trattarlo come un articolo di fede.

Nel frattempo, le esigenze del mercato globale, abbinate alla crisi finanziaria, stanno mettendo a dura prova lo stato sociale europeo. Ogni volta che l'età della pensione sale e le prestazioni sociali si assottigliano, l'Unione Europea viene additata come capro espiatorio. In Francia, ad esempio, le campagne antieuropee hanno diretto la rabbia popolare contro l'assalto "anglosassone" della Ue allo stato sociale, e contro l'"idraulico polacco" che porta via posti di lavoro in Francia a causa della libera circolazione dei lavoratori all'interno dell'Europa.

Il rapido allargamento dell'Unione a Est e a Sud le ha tolto altra linfa vitale. Venuta meno quella sensazione confortevole che trasmetteva la Ue a 15 prima della caduta del Muro di Berlino, i vecchi stati membri si sono ripiegati su stessi, mentre i nuovi membri dell'Europa centrale, che hanno potuto godere di una piena sovranità solo dopo il crollo del comunismo, non si sono mostrati tanto pronti a rinunciarvi. Il defunto presidente polacco Lech Kaczynski nel 2005, poco dopo la sua investitura, disse: «Ai polacchi interessa il futuro della Polonia e non quello dell'Unione Europea».

La partecipazione dell'Europa alle guerre in Iraq e in Afghanistan ha dato un altro colpo al progetto europeo. In Germania i due terzi dei cittadini sono contrari alla presenza di truppe tedesche in Afghanistan (non una buona notizia per una Ue che vorrebbe parlare con una voce unica sulla scena mondiale). Dare all'Europa più peso geopolitico è una delle ragioni fondanti dell'Unione, ma gli europei non ne vogliono sapere: queste guerre lontane, abbinate ai pesanti tagli alla spesa militare determinati dalla recessione, stanno facendo passare la voglia di accollarsi nuovi oneri.

«In questo momento l'Unione Europea sta cercando semplicemente di tenere i macchinari in funzione», mi ha detto recentemente un membro del Parlamento europeo. «La speranza è di guadagnare tempo in attesa che emergano nuovi leader disposti a rilanciare il progetto».
Guadagnare tempo forse in questo momento è la migliore strategia possibile, ma la china discendente del progetto europeo è destinata a continuare e gli effetti negativi si faranno sentire anche al di fuori del Vecchio continente. L'amministrazione Obama ha già manifestato la sua frustrazione per la presenza sempre più evanescente dell'Europa sulla scena geopolitica. Il segretario alla Difesa Robert Gates così si è espresso a febbraio, in una riunione di funzionari Nato: «La smilitarizzazione dell'Europa, dove parti consistenti della cittadinanza e della classe politica sono avverse alla forza militare e ai rischi che ad essa si accompagnano, nel XX secolo è stata una grande conquista, ma nel XXI secolo si è trasformata in un ostacolo al raggiungimento di una sicurezza reale e di una pace duratura».
Gli Stati Uniti, ora che sono impegnati a cercare di tirarsi fuori dal mare di debito in cui sono finiti e di dare un po' di respiro alle loro forze armate, giudicheranno sempre di più i loro alleati da quello che offrono. Nel caso dell'Europa, l'offerta è limitata e sempre meno consistente.

L'Europa non rischia un ritorno alle guerre: le sue nazioni hanno perso il gusto delle rivalità armate. Ma la politica europea, meno drammaticamente ma altrettanto definitivamente, diventerà progressivamente sempre meno europea e meno nazionale, fino a che l'Unione Europea non sarà unione solo di nome. A qualcuno non sembrerà una grande perdita, ma in un mondo che ha un disperato bisogno di una Ue compatta, determinata, forte e in buona salute, un'Europa frammentata e ripiegata su stessa rappresenterebbe una sconfitta storica.
Sessant'anni fa, Jean Monnet, Robert Schuman e Konrad Adenauer furono i padri fondatori dell'Europa. Oggi la Ue ha bisogno di una nuova generazione di leader capaci di infondere nuova vita a un progetto pericolosamente vicino a morire. Al momento, di questi leader non si vede traccia.

(Traduzione di Fabio Galimberti)

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