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Questo articolo è stato pubblicato il 05 settembre 2010 alle ore 14:16.
L'ultima modifica è del 05 settembre 2010 alle ore 08:04.
Bene ha fatto nei giorni scorsi Giorgio Napolitano a invocare «una seria politica industriale, nel quadro europeo e della libera concorrenza». Gli ha fatto eco Mario Baldassarri, presidente della Commissione Finanza del Senato («Occorre una nuova politica industriale»), mentre il ministro Sacconi ha ammonito ricordando le «fallimentari politiche industriali di sinistra che nella seconda metà degli anni Settanta ebbero la pretesa di decidere quali settori fossero maturi e quali innovativi» (Corsera del 2 settembre).
Come abbiamo più volte richiamato su queste pagine, cerchiamo di allontanare lo spettro dei falliti piani di settore degli anni 70 e capire perché occorrono nuovi tipi d'intervento pubblico capaci di rilanciare produttività e competitività - anche promuovendo aggregazioni e accordi cooperativi tra imprese troppo piccole per affrontare la mutata concorrenza internazionale - e non soltanto di tamponare le falle e distribuire incentivi a pioggia. Senza naturalmente escludere i preziosi incentivi fiscali e finanziari alla ricerca e sviluppo, sempre scarsi rispetto alla domanda delle imprese più dinamiche che per fortuna non mancano.
I quasi 200 "tavoli di crisi", che nelle prossime settimane occuperanno allo Sviluppo il sottosegretario Stefano Saglia, riproporranno la cosiddetta Programmazione negoziata sul territorio, volta ad affrontare situazioni di specifiche crisi aziendali che richiedono ristrutturazioni, chiusura di impianti o (si spera) acquisizione dei medesimi da parte di gruppi italiani o esteri interessati. Si tratta fondamentalmente di salvataggi dell'esistente, a cui concorrono in vario modo Regioni, Comuni ed enti locali offrendo infrastrutture, servizi, eventuali agevolazioni al decollo di nuove produzioni (magari nel nobile intento della green economy). Resta fermo che nessun denaro viene erogato all'azienda in crisi. Bene, ma restiamo sul terreno dell'emergenza, segnata spesso dallo scadere imminente della Cassa integrazione, più che della politica industriale volta a stimolare l'investimento nelle filiere tecnologiche più innovative e alla relativa conquista di nuovi mercati.