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Commenti e Inchieste

Quei giovani tuareg italiani

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Questo articolo è stato pubblicato il 07 settembre 2010 alle ore 07:55.
L'ultima modifica è del 07 settembre 2010 alle ore 08:54.

C'era una volta il patto generazionale. Fondato non sul denaro, ma sulle speranze: i figli crescevano con l'ambizione di superare i padri nella scala delle professioni e degli status e i padri invecchiavano con la certezza che, nella maggior parte dei casi, ciò sarebbe successo. Nell'Italia 2010 tutto questo è soltanto "archeologia sociale".
Oggi i giovani italiani detengono in Europa i record negativi più pericolosi del mondo del lavoro, dalla disoccupazione giovanile all'inattività, come ha rivelato l'Istat negli ultimi mesi con una sequenza di dati impressionanti.

Se oltre un giovane su quattro in Italia è disoccupato, se oltre due milioni di giovani "fantasmi" che non studiano, non lavorano, non fanno training professionale s'aggirano tutto il giorno per i bar di città e paesini, vuol dire che l'Italia sta rischiando di bruciare un'intera generazione, relegandola stabilmente ai margini della cittadinanza economica. La metà dei giovani "esclusi" abita nel profondo Sud e ha una laurea o un diploma, tutti loro stanno perdendo la speranza di conquistare una vita professionale decente o forse si stanno definitivamente accontentando di lavorare in nero. La rassegnazione è il sentimento dominante, la vera cifra di questa generazione di outsider che non diventeranno mai insider.

Di fronte a un fenomeno di queste dimensioni, non possiamo cavarcela pensando che i giovani italiani stiano semplicemente pagando il prezzo più alto della crisi a causa di exit strategies delle imprese fondate sui tagli di costi più che sugli investimenti, perché ciò avviene nell'intero Occidente avanzato senza produrre una simile frattura padri-figli. E non possiamo neanche limitarci a confidare nello storico "mammismo" italico, che proteggerebbe la nostra tenuta sociale grazie alla forza del più grande ammortizzatore sociale del Belpaese, la famiglia: vorrebbe dire individuare l'unica via di salvezza dei venti-trentenni italiani nella dipendenza a vita dalle generazioni precedenti.

È indispensabile e urgente, piuttosto, accendere i riflettori sul grande paradosso in cui sono intrappolati oggi i giovani italiani: affrontano un mercato del lavoro flessibile - che negli ultimi due anni ha puntato sul mantenimento dei livelli di occupazione stabile degli insider, sacrificando i contratti a progetto e a tempo determinato dei giovani outsider - senza avere a disposizione gli strumenti e le opportunità che la flessibilità offre nei mercati del lavoro dei paesi più avanzati. Un paradosso causato dal fatto che, negli ultimi quindici anni, il peso della flessibilità necessaria al sistema Italia è stato "scaricato" interamente sul mercato del lavoro.

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Tags Correlati: Finanziamenti alle imprese | Inps | Istat | Italia

 

I giovani italiani hanno dovuto affrontare la fine del posto fisso, delle carriere lineare e della previdenza pubblica senza poter contare su un welfare attivo e su un sistema di servizi privati pronto a raccogliere la sfida della mobilità: niente ammortizzatori sociali attivi, con formazione sul campo per rendere più facile l'ingresso nelle aziende, niente finanziamenti dalle banche - sulla base di contratti a termine o di titoli di merito scolastico - per creare da zero un'impresa, finanziare un master all'estero o acquistare la prima casa. In questa terribile asimmetria c'è la vera ragione della sconfitta dei giovani italiani: hanno dovuto giocare la partita della flessibilità con strumenti rigidi.

In questo scenario l'immobilismo della politica non è più neutro: non far nulla, oggi, equivale a una forma di silenzio-assenso rispetto all'esclusione e alla condizione di minorità d'una intera generazione. Serve un piano straordinario per i giovani italiani, che consenta di recuperare almeno dieci anni di opportunità perdute. L'agenda degli interventi strategici è così abbondantemente conosciuta, che potrebbe raccogliere consensi trasversali in parlamento e nel dibattito pubblico: completare la riforma Biagi attraverso la realizzazione e il finanziamento di ammortizzatori sociali attivi, rilanciare il contratto di apprendistato, incentivare le assunzioni a tempo indeterminato in aree depresse, offrire tassazione zero e burocrazia ridotta al minimo ai giovani che avviano nuove imprese.

Ciò che manca è, invece, il coraggio politico di farne una priorità assoluta, un punto-chiave per il rilancio delle potenzialità di crescita del nostro paese nei prossimi anni. Nonché la forza culturale di disfarsi di stereotipi narcotizzanti, come quello dei bamboccioni: quando riusciremo a cancellarlo dall'orizzonte del dibattito pubblico, privandoci così dell'alibi perfetto all'inazione e all'irresponsabilità?
Nel deserto delle opportunità, più che bamboccioni si trovano oggi giovani tuareg in cerca di oasi. Solo riuscendo a dare senso alla loro ricerca, ricostruiremo la speranza dello sviluppo in Italia.

fdelzio@luiss.it

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