Storia dell'articolo
Chiudi
Questo articolo è stato pubblicato il 07 settembre 2010 alle ore 07:51.
L'ultima modifica è del 07 settembre 2010 alle ore 08:41.
Il rapporto di Gianfranco Fini con le istituzioni è un rapporto - come dire? - molto istituzionale. A voce bassa, e in punta di forchetta. Ma non da oggi, né da due anni a questa parte, cioè da quando lui incarna a propria volta la terza istituzione dello stato. Non per nulla negli anni 80 Almirante lo scelse come suo delfino perché cercava «un giovane che credesse in queste istituzioni, in questa Costituzione». La storia successiva gli ha poi dato ragione, tant'è che nel discorso d'insediamento al vertice di Montecitorio Fini s'appellò alla Resistenza antifascista, e richiamò inoltre il valore fondativo del lavoro, con cui s'apre la Carta del 1947. Una risposta ai troppi che ne parlano come d'un fossile giuridico.
D'altronde Fini è ormai da lungo tempo un uomo delle nostre istituzioni: parlamentare in servizio permanente da un quarto di secolo (precisamente dal 1983, e fu allora il più giovane deputato dell'Msi), e in seguito vicepresidente del Consiglio, ministro degli Esteri, rappresentante dell'Italia alla Convenzione europea. In questi anni trascorsi con un doppiopetto indosso non si ricordano zuffe con gli altri poteri dello stato. Dovrebbe essere la regola, in Italia è diventata l'eccezione. Anche il rispetto tributato dalla politica al Capo dello stato funziona a giorni alterni: basta rievocare la rissa divampata attorno al caso Englaro (quando Napolitano rifiutò la firma al decreto predisposto dal governo), o immaginare l'iradiddio che si scatenerebbe se alla crisi del governo Berlusconi succedesse un governo tecnico, anziché lo scioglimento delle assemblee legislative. Ma Fini no, a giudicare dal suo stile pubblico per lui il rispetto è un sentimento, non un calcolo politico. O meglio un sentimento istituzionale, giacché i presidenti delle Camere sono i primi consiglieri del Capo dello stato, come vuole l'articolo 88 della Costituzione.
Semmai qualche frizione si è innescata tra Fini e il suo dirimpettaio al Senato. Per esempio il 30 agosto 2009, con una puntura di spillo da parte di Schifani sul testamento biologico; o il 31 maggio scorso, con un vero e proprio ceffone a proposito delle intercettazioni. Ma in entrambi i casi è stato il presidente del Senato a muovere all'assalto: da Fini neanche una parola. E in secondo luogo, la storia parlamentare è piena come un otre di battibecchi fra i due presidenti; una rivalità d'antica data, non tanto fra gli uomini quanto fra le assemblee che rappresentano. Così come è antico l'omaggio del presidente Fini alla magistratura. «Caposaldo della democrazia», l'ha definita a Mirabello; ma già nel lontano 1994 aveva preso le distanze dal decreto Biondi sulla custodia cautelare, reputandolo un danno alla giustizia.