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Questo articolo è stato pubblicato il 07 settembre 2010 alle ore 07:52.
L'ultima modifica è del 07 settembre 2010 alle ore 08:43.
Al di là della contingenza politica più stretta, il discorso svolto a Mirabello da Gianfranco Fini può essere legittimamente collegato a quanto detto pochi giorni prima dal presidente della Repubblica. Dove Giorgio Napolitano ha parlato della necessità di «una nuova generazione di leader che abbia visione e coraggio» e che nasca «grazie a una vasta mobilitazione della società civile e politica». Sia chiaro, non si vuole qui riconoscere pregiudizialmente una patente di "visione e coraggio" al leader di Futuro e libertà.
Gianfranco Fini dovrà misurare sul campo la capacità di affermare nei fatti la forza e il radicamento di quella destra nuova che ha descritto a Mirabello. E non sarà facile né scontato. Tuttavia in quel suo discorso - e in generale nel tentativo di smarcarsi dal lascito politico berlusconiano restando sul terreno di una destra di governo e di ispirazione europea - si legge anche una scommessa sulla possibilità che la politica italiana possa voltare pagina coinvolgendo una nuova generazione di leader fino ad oggi schiacciati dalla cattiva personalizzazione nella quale si è impantanata la nostra transizione.
Se guardiamo a cosa è accaduto nel centro-destra nell'ultimo quindicennio, è necessario prendere atto che tra i meriti storici di Silvio Berlusconi vi è l'avere dato un volto italiano a quel processo di personalizzazione della politica che ha conosciuto tutto l'Occidente. Dobbiamo principalmente al berlusconismo se abbiamo potuto scegliere tra aspiranti capi di governo e non solo tra capi di partito, così come gli dobbiamo l'avere introdotto in Italia una forma di bipolarismo che pur con tutte le sue debolezze e contraddizioni (e soprattutto con la debolezza dei soggetti di partito che quel bipolarismo avrebbero dovuto incarnare) ha europeizzato la nostra politica.
E tuttavia oggi dovrebbe essere chiaro anche ai più tenaci sostenitori del berlusconismo che la personalizzazione della politica italiana così chiaramente rappresentata dal Cavaliere si è avvitata su se stessa, essendosi trasformata da tempo soltanto in un referendum pro o contro l'infallibilità del fondatore di Forza Italia. Un plebiscito che ha avuto un unico protagonista, in positivo e in negativo, e che ha rimosso sia dal confronto interno al centro-destra che dalla più ampia discussione pubblica ogni spazio per le scelte politiche e culturali che dovrebbero riempire di contenuti una grande forza popolare come il Pdl si era candidato ad essere.