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Questo articolo è stato pubblicato il 10 settembre 2010 alle ore 08:14.
L'ultima modifica è del 10 settembre 2010 alle ore 08:05.
Indro Montanelli, che Giulio Andreotti lo conosceva bene, raccontava spesso un aneddoto per descrivere la personalità del leader democristiano: «De Gasperi e Andreotti - diceva - andavano insieme a messa e tutti credevano che facessero la stessa cosa. Ma non era così. In chiesa De Gasperi parlava con Dio, Andreotti con il prete. I preti votano, Dio no». Basterebbe questa frase per ricollocare Andreotti nella sua giusta dimensione storica nella politica italiana e per comprendere i motivi per cui ancora oggi, malgrado i suoi 92 anni, il vecchio senatore a vita non sia cambiato affatto.
Più che il Belzebù della politica italiana, Andreotti era e resta il simbolo della gestione cinica del potere, l'ideologo della politica priva di idealismo, del pragmatismo cinico sia nei confronti dei vivi che dei morti. Lui l'ha definita «una battuta in romanesco male interpretata», e magari è anche sincero, ma dietro la frase infelice sull'omicidio di Giorgio Ambrosoli c'è in realtà un vecchio modo di interpretare la politica di cui Andreotti è la testimonianza storica, ma che a volte riaffiora con effetti dirompenti.
Nell'intervista a Giovanni Minoli, Andreotti ha detto che accettando l'incarico di liquidatore della banca di Michele Sindona, Ambrosoli «se l'è andata a cercare»: se non avesse indagato sui rapporti tra il finanziere siciliano, la mafia, il vaticano e la vecchia Dc, insomma, l'avvocato milanese sarebbe ancora vivo. Sulla base di questo principio, allora, anche Dalla Chiesa, Falcone, Borsellino e tanti altri servitori dello Stato uccisi dalla mafia sarebbero ancora vivi se avessero evitato di scuotere il Palazzo. Ma la società civile sarebbe stata forse più sicura?
Il punto, per Andreotti, è però un altro. Che si tratti di un politico, di un poliziotto, di un magistrato o di un avvocato, il principio che vale è sempre lo stesso: quando si attaccano interessi forti e oscuri, si subiscono reazioni forti.
Montanelli diceva che chiamando Andreotti «Belzebù», come facevano i giornali e la sinistra italiana negli anni 70 e 80, si rischiava la querela del diavolo. Ma la sua non era un'accusa rivolta al politico: era un modo per dire che Andreotti è stato sopravvalutato nel bene e nel male, è stato mitizzato più che capito.