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Parigi val bene una riforma

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Questo articolo è stato pubblicato il 12 settembre 2010 alle ore 14:12.

Vista dall'Italia, la massiccia protesta dei francesi contro la riforma pensionistica può evocare l'immagine di un paese di retroguardia, arroccato nella difesa di benefici insostenibili. È mai possibile che in Francia l'innalzamento dell'età pensionabile da 60 a 62 (da realizzarsi, per di più, entro il 2018) porti ancora in piazza milioni di persone, mentre in Italia - da sempre considerata la patria dei privilegi, piccoli o grandi, e indisponibile a rinunciarvi - l'età media di pensionamento è già sui 61 anni, le dipendenti pubbliche hanno accettato l'equiparazione agli uomini a 65 anni e, soprattutto, l'età di pensionamento è stata indicizzata, senza proteste, alle variazioni della speranza di vita a partire dal 2015?


Al di là di considerazioni storico-filosofiche, la risposta a questo interrogativo dipende in parte dalla diversa gravità degli squilibri iniziali dei sistemi pensionistici e in parte dal diverso andamento demografico ed economico dei due paesi. In Italia, la percezione chiara dell'insostenibilità del sistema e il rischio di una conseguente crisi finanziaria innescano nel 1992 un processo di riforma lento e faticoso, ma nel complesso efficace nel comprimere la spesa. In Francia, gli squilibri sono denunciati sin dalla metà degli anni 70, ma proiettati dopo l'anno 2000, in concomitanza con l'arrivo al pensionamento della generazione dei baby boomer. La maggiore solidità dell'economia francese e il suo più elevato tasso di crescita mascherano, tuttavia, il problema, oscurandone la matrice essenziale - l'invecchiamento demografico - e conferendogli un minor grado di urgenza rispetto a quello italiano; ovviamente, però, non lo risolvono: quanto maggiore è la crescita, tanto maggiori sono i contributi versati, ma proprio per questo tanto maggiori risultano anche le pensioni future.

Una prima incisiva riforma, approvata nel 1993 senza concertazione con le parti sociali, va sotto il nome dell'allora primo ministro Edouard Balladur. In sintonia con le misure introdotte nello stesso anno in Italia dal governo Amato, la riforma Balladur sposta l'indicizzazione delle pensioni dai salari ai prezzi e allunga, da 10 a 25, il numero di anni per il calcolo del salario medio a cui rapportare l'importo della pensione (poiché i salari crescono normalmente con l'età, quanto maggiore è il periodo di riferimento, tanto minore è il salario). Come per l'Italia, la de-indicizzazione è particolarmente severa: con un tasso realistico di crescita della produttività pari all'1,8% l'anno, le pensioni perdono in 30 anni poco meno della metà del potere d'acquisto rispetto al salario. Molti osservatori ritengono che il deterioramento della qualità del dialogo sociale sulle pensioni in Francia abbia inizio da allora.

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Tags Correlati: Amato | Associazione Turistica Albergatori | Edouard Balladur | Francia | Italia | Previdenza complementare

 

Mentre l'Italia scandisce gli anni 90 con una fitta successione di riforme (che continua peraltro nel primo decennio del nuovo secolo), la Francia si concede pause più lunghe e nel 2003 approva una nuova riforma, consistente nell'allungamento del periodo di contribuzione, in modo tale da mantenere costante il rapporto tra la durata del pensionamento e quella del periodo lavorativo (una misura analoga, ma più blanda, rispetto all'indicizzazione dell'età alla speranza di vita, adottata dall'Italia). L'opposizione è forte, ma la riforma passa perché, almeno in apparenza, non tocca un "tabù" degli anni 80, ossia il pensionamento a 60 anni, assurto quasi a simbolo del welfare state. Certo, si tratta in gran parte di apparenza, perché il vincolo stringente dei 40 anni di contribuzione (e poi 41, 42 ecc.) rende di fatto impossibile accedere al pensionamento a 60 anni.

Un aspetto non meno importante della riforma del 2003 è il legame istituito con l'assicurazione contro la disoccupazione, che rende l'evoluzione di quest'ultima un parametro chiave dell'equilibrio finanziario dei diversi regimi pensionistici. Scenari rivelatisi poi ottimistici prevedevano un tasso di disoccupazione del 4,5%, che avrebbe dovuto consentire l'accumulazione di un fondo di riserva, da utilizzare per coprire i disavanzi pensionistici, dell'ordine di 150 miliardi di euro entro il 2020, garantendo al sistema qualche decennio di tranquillità finanziaria.

La crisi economica ha completamente modificato questo quadro, portando il tasso di disoccupazione all'8% e riducendo fortemente l'apporto al fondo di riserva (oggi a 33 miliardi di euro, che consentono la copertura dei disavanzi soltanto dei prossimi 10 anni). Di qui la necessità di una nuova riforma, oltre al già previsto aumento del periodo di contribuzione (41 anni nel 2012, 42 nel 2016) e la proposta del presidente Sarkozy, la quale assume però un sapore quasi sacrilego perché infrange il tabù dei 60 anni ed evidenzia, in modo impietoso, che l'unica strada per conferire sostenibilità al sistema pensionistico, senza schiacciare al di sotto di un livello ragionevole l'importo delle pensioni, è quello di alzare il tasso di occupazione dei lavoratori anziani. Anche in Francia, come già in Italia, è arrivato il tempo delle verità scomode, non più mascherabili o rinviabili. Gli italiani, con fatica, l'hanno capito e a malincuore accettato. A quando i francesi?
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