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A 50 anni l'Opec torna a mostrare i muscoli

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Questo articolo è stato pubblicato il 14 settembre 2010 alle ore 09:09.
L'ultima modifica è del 14 settembre 2010 alle ore 09:10.

Oggi che i rigurgiti della crisi finanziaria soffocano ancora la ripresa dell'economia mondiale, riducendo la domanda di energia, l'Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (Opec) se ne sta quasi in disparte, lontana dai riflettori dei media internazionali. In attesa. Sapendo che prima o poi tornerà alla ribalta, non appena l'economia mondiale ripartirà. Nei prossimi anni potrebbe accadere di tutto. Le incognite che pendono su alcuni paesi produttori, minacciando un'improvvisa interruzione dell'offerta di greggio, sono ancora lì, e sono molte. Tutto indica che l'Opec tornerà a giocare un ruolo primario.

Ha i numeri per farlo: dispone del 75% delle riserve mondiali di greggio e più del 50% delle esportazioni.

Eppure, quando il 14 settembre del 1960 i rappresentanti del settore energetico di Iran, Iraq, Kuwait, Venezuela e Arabia Saudita si riunirono a Baghdad per fondare l'Opec, quasi nessuno se ne accorse. Tredici anni più tardi il mondo comprese un'amara realtà: l'Opec poteva tenere sotto scacco le loro economie, semplicemente decidendo di allentare o stringere i suoi rubinetti di greggio. Volenti o nolenti era divenuta un irrinunciabile interlocutore.

È stata un'ascesa irresistibile, facilitata dalla politica vorace delle compagnie petrolifere internazionali e da una serie di "fortunate" contingenze. A fine anni 50, quando l'offerta di greggio sui mercati era eccessiva, le sette sorelle, che estraevano petrolio soprattutto in Medio Oriente, abbatterono i posted price. Vale a dire il prezzo che pagavano per ogni barile ai paesi dove estraevano greggio. Una sorta di tassa, decisa unilateralmente. Riducendola, i paesi produttori videro le entrate crollare. La risposta fu la creazione dell'Opec. Fu presto evidente ai paesi produttori quanto vantaggioso fosse far parte del cartello. Nel 1961 aderì il Qatar, poi fu la volta del l'Indonesia e della Libia. Nel 1967 ci entrarono gli Emirati, due anni dopo l'Algeria, nel 1971 la Nigeria. Più tardi il Gabon (oggi fuori), Ecuador e Angola.

L'obiettivo era difendere i prezzi del greggio, regolando l'offerta, creando così una coalizione capace di contrastare il potere delle grandi major energetiche. Per far sì che ciò avvenisse con più efficacia, presero il via le nazionalizzazioni delle industrie petrolifere. Nel 1969 in Libia, nel 1972 in Iraq, nel 1973 in Kuwait, nel 1974 in Arabia, l'anno dopo in Venezuela. Il colpo fu molto duro per i i paesi occidentali. Durissimo per le sette sorelle.

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Tags Correlati: Cina | Iraq | Israele | Kuwait | Libia | Opec | Reza Pahlavi | Stati Membri | Stati Uniti d'America | Venezuela

 

Il 6 settembre 1973 scoppiò la terza guerra arabo-israeliana, il conflitto dello Yom Kippur. Israele subì nei primi giorni l'avanzata dell'esercito di Siria ed Egitto. Gli Stati uniti decisero di organizzare un ponte aereo per rifornire il paese di armi e munizioni. La contromossa dei paesi arabi dell'Opec fu l'embargo petrolifero contro i paesi che appoggiavano Israele. Tra ottobre e gennaio i prezzi del greggio toccarono valori quattro volte superiori rispetto a quelli precedenti la guerra. I paesi consumatori si trovarono in ginocchio. Nel 1974, attraverso la fondazione dell'Agenzia internazionale dell'energia, crearono le scorte strategiche.

Negli anni successivi il prezzo del barile ridiscese velocemente. Troppo il petrolio prodotto e quasi nulla la disciplina in seno all'Opec. Ma a cavallo tra il 1979 e il 1980, in un anno e mezzo, quattro eventi incendiarono il Medio Oriente provocando il secondo shock petrolifero. Nel marzo 1979 la rivoluzione in Iran e la cacciata dello scià Reza Pahlavi, sostenuto dagli Usa. In novembre l'occupazione dell'ambasciata americana a Teheran da parte dei rivoluzionari. A dicembre l'invasione sovietica dell'Afghanistan. Si temeva che l'Urss volesse fagocitare le riserve chiave del vicino Iran (allora secondo esportatore mondiale). La goccia che fece traboccare il vaso fu lo scoppio, nel settembre del 1980, della guerra tra Iran e Iraq. I prezzi del greggio si incendiarono volando a fine anno al record di 42 dollari barile (80 di oggi). In quell'anno l'Opec ricavò dalle esportazioni la cifra astronomica di 566 miliardi di dollari.

Agli anni delle vacche grasse seguirono quelli delle vacche magre. La politica dissennata dei paesi membri e la crisi delle Tigri asiatiche contribuì a far crollare il prezzo del barile sotto i 10 dollari. Era il 1998: uno shock petrolifero, ma all'inverso, colpiva l'Opec. Per risollevare i prezzi ci vollero molti anni e dolorosi tagli per limitare l'offerta. Poi la congiuntura cambia, l'economia mondiale cresce, sulla scena internazionale irrompono i paesi emergenti, Cina in testa. Con la sua economia energivora Pechino sconquassa gli equilibri del mercato. Si arriva al picco di 147 dollari al barile, nel luglio del 2008. Troppo, anche per l'Opec. Di questo passo i paesi industrializzati potrebbero dirottare sempre più fondi verso lo sviluppo delle energie alternative. A far precipitare i prezzi ci pensa la crisi finanziaria. La domanda crolla, il prezzo del petrolio precipita. In soli cinque mesi a New York cade da 147 a 40 dollari al barile.

La domanda che gli analisti si pongono è: l'Opec è un cartello? L'interessata la rifiuta. «Ma perché oggi le major sono costrette a trivellare i fondali marini a grandi profondità, con tutti i rischi e i costi aggiunti che ne conseguono quando c'è un mare di petrolio nel Golfo persico a buon mercato?» Semplice. L'Opec non ha interesse a inondare il mondo di greggio. Quasi tutti i paesi membri hanno mostrato una politica dissennata, rimandando le indispensabili riforme strutturali necessarie a modernizzare e diversificare le loro economie. E oggi si trovano con la stessa malattia di prima, la petrodipendenza; il 90-95% del loro export in valore deriva proprio dalle vendite di oro nero.

Gli attuali 70-80 dollari al barile tutto sommato stanno bene all'Opec. È il futuro dell'Iraq, paese ancora sprovvisto di una quota, a destare preoccupazioni. I contratti che ha firmato potrebbero agevolmente portare la sua produzione dagli attuali 2,5 a 4,5 mbg in tre-quattro anni. Conseguenza: gli altri dovranno ridurre la propria quota produttiva per far spazio al nuovo gigante. Cosa che il vicino Iran vede come il fumo negli occhi. Ipotesi che irrita l'Angola, neo entrata, e la Nigeria. Dell'Opec si sentirà presto parlare ancora molto. Nel bene o nel male.

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