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Anemia mediterranea: l'asso è la terapia genica

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Questo articolo è stato pubblicato il 17 settembre 2010 alle ore 08:03.


L
a talassemia, o anemia mediterranea, così chiamata in rapporto alla sua distribuzione geografica, è una grave malattia ereditaria dei globuli rossi. Secondo alcuni era già stata riconosciuta addirittura da Ippocrate. Per molti pazienti con talassemia grave la vita stessa dipende dalle trasfusioni di sangue: pertanto la cura della talassemia è complessa, e ha avuto tre pietre miliari.
A partire dagli anni 70 l'introduzione della deferroxiamina ha permesso di prevenire il sovraccarico di ferro, pericolo mortale per i pazienti pesantemente trasfusi (e contemporaneamente l'opera infaticabile guidata da Antonio Cao offriva in Sardegna a tutte le coppie a rischio la prevenzione della talassemia grave attraverso la diagnosi prenatale). A partire dalla fine degli anni 80 pazienti con talassemia grave sono stati per la prima volta guariti attraverso il trapianto di midollo osseo: pioniere di questo approccio è stato Guido Lucarelli.
La terza pietra miliare ha una data precisa, quella del 7 giugno 2007, quando a Parigi per la prima volta un paziente con talassemia grave viene curato con la terapia genica, come narrato in dettaglio nella rivista Nature di ieri. Gli autori sono 38; e i tre indicati come principali sono Marina Cavazzana-Calvo, Emmanuel Payen e Philippe Leboulch.
La base concettuale della terapia genica è abbastanza semplice. Molte malattie ereditarie - tra le quali la talassemia grave - sono dovute al fatto che nel paziente entrambe le copie di un determinato gene sono mutate. E le mutazioni sono di un tipo tale da rendere quei due geni inattivi: nel caso della talassemia si tratta di solito dei geni della -globina, necessari per fare metà della molecola dell'emoglobina. Da quando abbiamo imparato a tagliare e ricucire il Dna, si è sviluppata naturalmente l'idea di introdurre nelle cellule staminali di un paziente talassemico il gene normale della -globina, e normalizzare così la produzione di emoglobina. Se l'idea è semplice, la sua realizzazione è complessa. Ci sono voluti più di 10 anni per capire che il modo migliore di fare annidare il gene nel Dna delle cellule bersaglio era di costringere un virus (naturalmente privato del suo potere patogeno) a fungere da vettore; e circa 10 anni per identificare quali elementi di Dna erano necessari perché il gene della -globina, una volta annidato, funzionasse a dovere.

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Tags Correlati: Antonio Cao | Emmanuel Payen | Europa | Guido Lucarelli | Marina Cavazzana | Michel Sadelain | Ospedali | Philippe Leboulch | Sloan-Kettering | Stati Uniti d'America |

 

Un giovane scienziato di nome Michel Sadelain fu il più perseverante in questo difficile cammino; avevo avuto la fortuna di attrarlo al mio dipartimento quando ero allo Sloan-Kettering a New York, e avendo lavorato da sempre, come ematologo, sulle malattie genetiche del sangue, fu con lui che nel 2000 potemmo pubblicare, sempre su Nature, la terapia genica della talassemia nel topo.
Non è strano che ci siano voluti altri 10 anni per passare dalla cura di un topo a quella di un uomo: occorrono quantità di vettore molto maggiori, occorre riuscire a utilizzare le cellule del paziente stesso anziché quelle di un topo geneticamente identico, e per fortuna le norme di sicurezza e le considerazioni etiche sono assai più stringenti.
Finalmente, a un giovane di 18 anni - lo chiamerò ET perché affetto da una forma di E-talassemia - è stato offerta nel 2007 a titolo sperimentale la terapia genica: dopo prelievo del suo midollo osseo gli è stato somministrato un chemioterapico capace di quasi distruggere il resto del midollo. Dopodiché le cellule del midollo nelle quali era stato introdotto il gene della -globina venivano re-infuse: dal punto di vista medico una procedura assai simile a quella di un cosiddetto auto-trapianto. Da quel momento in poi la trepidazione è stata grande: e ci sono voluti quattro mesi prima di essere certi che tutto aveva funzionato. A tre anni di distanza possiamo dire che ha funzionato molto bene: dal giugno del 2008 ET non ha più fatto una sola trasfusione, e il suo livello di emoglobina, sebbene non normale, è intorno a 10, permettendogli una buona qualità di vita.
Al tempo stesso, per mantenerci umili, occorre sottolineare che non tutti i problemi sono risolti. Esperienze precedenti ci dicono che una questione importante è dove un gene introdotto a scopo terapeutico vada ad annidarsi, e in questo caso già ci è data la risposta: nel 60% delle cellule di ET il gene funzionante della -globina normale è inserito nel bel mezzo di un gene siglato HMGA2, un gene importante per la struttura dei cromosomi e che, quando alterato, può dare tumori, per lo più benigni. È stato anzi osservato che proprio il clone con questo tipo di inserzione si è progressivamente espanso, ed è inevitabile la preoccupazione che da esso possa evolvere una malattia simile a una leucemia.
Finora le malattie umane guarite con la terapia genica si contano sulle dita di una mano: le prime sono state due tipi di immuno-deficienza congenita, alle quali si è aggiunta poi la adrenoleucodistrofia (una greave malattia neurologica), e ora la talassemia. Se le tecnologie abilitanti si sono sviluppate principalmente negli Usa, i centri con maggiori casistiche sono in Europa, a Milano, Parigi e Londra. Anche il numero di pazienti trattati è per ora esiguo. E per qualunque terapia che non fosse eccezionale come questa, nessuna rivista scientifica di qualità si presterebbe a pubblicare un lavoro su un unico paziente: poiché non possiamo per ora essere certi se il successo della terapia nel caso di ET è stato un colpo di fortuna, o se la procedura funzionerà regolarmente.
Per questo e altri motivi non mi sento di prevedere quanto tempo occorrerà ancora per passare da un protocollo sperimentale a una terapia standard; ma ritengo finalmente realistico prevedere che si possa offrire a tutti i pazienti con talassemia grave una terapia che non dipenda dall'avere o trovare un donatore di midollo, non li esponga ai rischi associati al trapianto, e tuttavia li affranchi definitivamente dalle trasfusioni e dalla ferro-chelazione. Per me è un pensiero che commuove.
Lucio Luzzatto è direttore scientifico
dell'Istituto toscano tumori
© RIPRODUZIONE RISERVATA
CHI È

pLucio Luzzatto ha studiato a Pavia e a New York. Ha diretto il dipartimento di Ematologia presso l'Hammersmith Hospital di Londra e quello di genetica al Memorial Sloan-Kettering Cancer Center di New York

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