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Krugman-Rajan a colpi di spada

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Questo articolo è stato pubblicato il 22 settembre 2010 alle ore 08:20.
L'ultima modifica è del 22 settembre 2010 alle ore 08:03.

Non si possono immaginare due economisti più diversi. Era inevitabile che finissero per scontrarsi pubblicamente, per il piacere dei lettori. Il dibattito tra Paul Krugman e Raghuram Rajan esploso tra le colonne della New York Review of Book e di Foreign Policy, che attraversa alcuni grandi temi della crisi, è una sfida, innanzitutto, tra due modi opposti di essere oggi intellettuali impegnati.


Quasi dieci anni esatti separano i due protagonisti. Rajan, 47 anni, indiano, docente alla Business School dell'Università di Chicago, è per l'opinione pubblica un astro nascente. È uno studioso rigoroso e attento, al punto da scuotere - per il suo percorso intellettuale, non per anticonformismo - molti luoghi comuni: la retorica dei conservatori che si ostinano a confondere aziende e mercato - suo, e di Luigi Zingales, è quel Salviamo il capitalismo dal capitalisti che riecheggia e amplifica, pur senza citarla, la distinzione di Luigi Einaudi tra l'"economia di mercato", un progetto politico, e il "capitalismo storico" con i suoi innumerevoli difetti - ma anche gli schemi dei progressisti, ancora prigionieri dell'errore storico di non voler riconoscere il ruolo della concorrenza nell'evitare la cristallizzazione delle élite e quello dello stato nel sostenerle e proteggerle.


Krugman, 57 anni, è invece "arrivato": famoso e brillante, fiero del suo premio Nobel, ottenuto su un tema caldo come l'economia internazionale. Al fianco del più solido Joseph Stiglitz, è un progressista tradizionale, sostenitore del ruolo del governo e delle politiche monetarie e fiscali. Soprattutto è politicamente schierato, al punto da far sospettare di aver criticato Bush e lodato Obama per interventi sostanzialmente uguali.
Lo scontro si è aperto sull'ultimo libro di Rajan, quel Fault lines in cui l'economista, d'impostazione liberista ma senza cecità ideologiche, non ha alcuna remora di sottolineare le "linee di faglia" dell'economia contemporanea, a cominciare dal grave problema della diseguaglianza economica - un tema progressista - contro il quale le politiche tradizionali come la distribuzione di redditi attraverso le tasse rischiano di risultare inefficaci se non pericolose.

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Tags Correlati: Bce | Bill Clinton | Fannie Mae | Fed | George W. Bush | John Taylor | Luigi Einaudi | Paul Krugman | Politica | Raghuram Rajan

 


Krugman, in una recensione scritta con Robin Wells, usa contro Rajan la sua arma preferita: l'accetta. Con pochi, ben assestati colpi, distrugge gli argomenti dell'avversario: all'idea che la Fed abbia generato la crisi dei subprime tenendo i tassi troppo bassi - una tesi in realtà riccamente argomentata per primo da John Taylor dell'Università di Stanford - obietta che la banca centrale non poteva far altro, per la ripresa troppo lenta. Non era poi sola: anche la Bce ha tenuto il costo del denaro ai minimi.
Si scaglia poi contro l'idea che i programmi governativi abbiano creato situazioni di moral hazard, di opportunismo. A Krugman stanno a cuore soprattutto le politiche a favore dei mutui per la casa, realizzate attraverso mandati precisi alle agenzie Fannie Mae e Freddie Mac: secondo Rajan avrebbero - attraverso un meccanismo molto complesso, che ha visto anche l'inconsapevole intervento della Cina - creato le condiioni per la bolla; ma le colpe del governo, spiega la recensione, sono solo di omesso controllo.


Le obiezioni di Krugman hanno il difetto di sempre: troppo semplicistiche per una realtà molto complessa. Il problema vero è però che le tesi distrutte da Krugman non sono i temi di Fault lines, ma la loro caricatura, un riassunto che le rende ridicole. Le argomentazioni di Rajan non sono solo più complesse, ma già offrono una risposta alle critiche del Nobel, che però le ignora senza provare a confutarle. Non mancano neanche le forzature. Rajan dà la colpa ai politici, dice Krugman, senza fare nomi; ma, aggiunge, «è chiaro che nella sua visione del mondo la responsabilità è soprattutto dei democratici». In realtà Fault lines parla d'interventi iniziati da Bill Clinton ed esasperati da George W. Bush...
La risposta di Rajan non si è fatta aspettare. Feroce fin dal titolo: «Perché Paul Krugman dà la colpa della crisi agli stranieri? Forse perché gli altri suoi argomenti, a un esame attento, non stanno in piedi». Con certosina pazienza ha ripescato tutte le argomentazioni sostenute nel tempo dal suo "avversario". Sempre nuove, sempre diverse, spesso contraddittorie, salvo nell'intento finale: difendere le agenzie governative Fannie Mae e Freddie Mac.
Meno laborioso è stato forse trovare studi che dimostrassero che anche la Bce, con i suoi tassi bassi, ha creato bolle immobiliari, in Irlanda e in Spagna. Senza nascondere a nessuno - una soddisfazione in più - che le sue argomentazioni sono criticate, forse con argomenti più solidi, anche da altri economisti.


La conclusione è più tranchant di quella promessa dal titolo. Krugman, dice Rajan, non può che dare la colpa di tutto, come Bernanke, all'eccesso di risparmio dei cinesi, dei giapponesi, dei tedeschi: una concausa, sicuramente, ma "parziale". Il Nobel ha infatti sempre sostenuto quelle politiche - tassi bassi, mutui facili - all'origine della crisi e ora vuole che continuino. Senza nutrire dubbi, senza chiedersi: a quale prezzo?
La cosa da fare, però, è un'altra: «Molte persone, banchieri, regolatori, governi, famiglie ed economisti tra gli altri - scrive Rajan - condividono la responsabilità della crisi. Poiché sono così tante, il gioco del "di chi è la colpa?" non è utile. Cerchiamo piuttosto di capire che cosa è successo per evitare di ripeterlo. Gli americani hanno di fronte scelte difficili. È importante alleviare le miserevoli condizioni dei disoccupati di lungo periodo, ed è necessario dar loro incentivi e aprire una strada per dar loro quelle competenze richieste dai lavori che si stanno creando. Mantra semplicistici come "più stimoli" sono la strada più sicura per allontanarci dalle politiche per una crescita sostenibile».

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