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Chi ha paura di una banca autonoma?

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Questo articolo è stato pubblicato il 22 settembre 2010 alle ore 08:47.

Ogni impresa ha diritto a cambiare il proprio management, in qualunque momento. Agli azionisti spetta la nomina e l'allontanamento dei vertici operativi. È, nel mercato, il loro potere centrale. Questa semplice regola del capitalismo, in cui questo giornale crede con convinzione, deve però rispondere sempre a una logica razionale. Perché, sennò, il mercato ha diritto a mostrarsi scettico. Quello stesso scetticismo che, oggi, circonda l'operazione finalizzata all'allontanamento di Alessandro Profumo da UniCredit, che il ministro Tremonti, icasticamente, ha definito «maldestra».

La prima zona d'ombra del Blitzkrieg teutonico-padano non è costituita dalla fretta, ma dalla furia. In queste settimane abbiamo raccontato il logoramento del rapporto fra Profumo e gli azionisti, in primo luogo le fondazioni italiane. E abbiamo fatto carico al manager delle sue responsabilità. C'è, però, qualcosa che stride: lo strappo violento che gli azionisti tedeschi e italiani hanno scientificamente prodotto nelle ultime ore sono un cattivo esempio di governance. Non è giustificabile che una grande banca di sistema, la più internazionalizzata del paese, divenga all'improvviso un corpo privo di testa strategica e operativa. Si tratta di un organismo complesso, che ogni giorno fornisce credito al sistema industriale italiano, in cui sono in corso importanti progetti di medio periodo, come la riorganizzazione interna che dovrebbe portare a Banca Unica. Un progetto che Profumo disegnava chiavi in mano, e che rischia ora di restare acefalo. Ribadito ancora il diritto degli azionisti di cambiare l'amministratore delegato perché non progettare un percorso per consentire a Profumo di ultimare i dossier aperti e per portare a un contemporaneo avvicendamento con un manager di calibro internazionale? Perché indulgere in una guerra lampo che potrebbe portare a un pericoloso vuoto di potere?

Perfino le banche americane, che sono state semitravolte dall'ultima crisi finanziaria, hanno sempre cambiato il Ceo uscente con quello nuovo. Aborrendo la vacatio. Anche perché il diritto bancario pone più di una questione sulla piena legittimità e sul perfetto funzionamento delle deleghe, qualora queste venissero trasferite al presidente della banca, come potrebbe capitare in questo caso. A questo punto, per tutte queste regioni regolamentari e di sostanza, è bene che la Banca d'Italia accenda più di un faro di vigilanza su cosa sta capitando in Piazza Cordusio. Una vicenda segnata da troppe opacità: prova ne è la preoccupazione manifestata anche, all'interno del perimetro governativo, da un Tremonti a dir poco scettico e da una maggioranza divisa. Di certo, lascia perplessi che una delle principali infrastrutture finanziarie del paese, perché questo è una grande banca come UniCredit, possa passare sotto il controllo del capitalismo tedesco o che, restando nella ristretta cinta daziaria italiana, possa diventare oggetto degli appetiti della politica.

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E che una di queste opzioni, o il combinato disposto di entrambe, si possa inverare proprio adesso, mentre il paese si trova alla vigilia di possibili elezioni. Al di là della valutazione sull'operato di Alessandro Profumo - che ci sarà ora tempo per fare - e al di là di come questi regolerà nel dettaglio il suo rapporto con gli azionisti che lo criticano, va detto che questo passaggio complicato in UniCredit poteva essere una storia di ordinario capitalismo, sia pure "all'italiana". E, invece, così non è stato. C'è una cosa che l'economia e la politica, o per meglio dire l'intera comunità italiana, hanno fatto bene: l'aggregazione delle banche negli anni Novanta e la loro conduzione negli ultimi dieci anni.
Tutti, in Italia e all'estero, hanno elogiato i nostri istituti di credito. Che, infatti, hanno sofferto meno di altri le patologie dell'ingegneria finanziaria e hanno sostenuto in misura più robusta e convinta il sistema produttivo. L'auspicio è che questa peculiarità strutturale non si smarrisca, che la politica resti fuori dallo sportello e che non si apra una stagione cruenta, in cui i manager indipendenti in grado di dire dei no anche al "territorio", nobile parola che talvolta è sinonimo ipocrita di clientela, divengano prede da impallinare e da sostituire, in furiosa velocità, con più fedeli cani da riporto.


Stupisce infine, in quella che è stata una operazione dura e difficile per tutti, la scarsa visibilità del premier Berlusconi, che pure avrebbe potuto palesare una sua "moral suasion" su tutti, richiamando ciascuno alla sua responsabilità. E' come se la maggioranza da raggranellare uno per uno alla Camera conti più della gigantesca UniCredit nel corso della gigantesca crisi del XXI secolo. E' una storia di affari e politica di cui l'uscita di Alessandro Profumo segna forse l'inizio, non la fine.

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