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Il welfare cerca una quarta via

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Questo articolo è stato pubblicato il 24 settembre 2010 alle ore 08:31.
L'ultima modifica è del 24 settembre 2010 alle ore 08:06.

Elezione dopo elezione, l'Europa assiste allo sgretolamento della sua socialdemocrazia.

Il 2010 verrà ricordato perché a essere affossate sono state entrambe le versioni della prospettiva socialdemocratica: in primavera, il New Labour inglese è stato travolto dall'avanzata dei conservatori di David Cameron e dei liberali di Nick Clegg; pochi giorni fa è arrivato il turno dei socialdemocratici svedesi d'incassare il peggior risultato della loro storia post-1914, che li ha portati a una risicata percentuale del 30,9% dei voti, ben lontana dalle maggioranze trionfali di un tempo, che avevano fatto di loro gli artefici di un modello sociale guardato con ammirazione nel mondo.
Cade dunque, allo stesso tempo, sia la socialdemocrazia classica, quella che si è identificata col Welfare state e con l'economia mista, sia la socialdemocrazia riformata, amica del mercato e aperta alla globalizzazione, nella versione codificata dalla lunga esperienza di governo di Tony Blair.
C'è una malattia che erode la sinistra come il centro-sinistra, perché non sembra risparmiare né le incarnazioni moderate e volte a rincorrere il voto dell'elettore di centro né quelle più inclini a conservare l'anima sociale e le aspirazioni all'eguaglianza della tradizione socialista. Ovunque si registra un'emorragia di consensi che mette in discussione il ruolo e la capacità d'azione di partiti costretti a oscillare fra il tentativo di rinverdire le loro radici e quello di sbiadire la loro identità storica, fino ad annullarsi in un appello alla modernizzazione in cui si cancella ogni discrimine di classe.


Nel weekend si chiuderà nel Regno Unito il confronto per la leadership del Labour party, alla ricerca di un'ispirazione politica che lo tragga dall'incertezza in cui il partito è piombato dopo l'uscita di scena di Blair. La contesa è fra i due fratelli Miliband, entrambi già coinvolti nell'azione di governo, che rappresentano con le loro personalità e i loro programmi le alternative possibili: il maggiore, David, è l'espressione della continuità ed è il candidato di tutti quanti (da Blair, che non esterna la sua preferenza solo per non danneggiarlo, fino all'Economist) considerano il New Labour come un punto di non ritorno, una svolta che non può essere contraddetta. Al contrario, il più giovane Ed - sostenuto, fra gli altri soggetti, dalla Fabian Society e dalla rivista New Statesman - ha come slogan Change to win e dice che bisogna segnare uno stacco dall'età di Blair, per fare di nuovo del Labour un partito capace di ridurre la diseguaglianza sociale. Ed Miliband aggiunge che non si può rinunciare all'istanza socialdemocratica d'imprimere la propria forma sull'economia, non demandando tutto al gioco del mercato.

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Tags Correlati: Change | David Cameron | Europa del Nord | Miliband | Nick Clegg | Partiti politici | Stieg Larsson | Tony Blair

 


Il rischio è che tutt'e due le piattaforme politiche dei fratelli Miliband si rivelino poco in grado d'intercettare gli umori della società inglese: quella di David perché riecheggia troppo il blairismo, evocando anche le sue delusioni; quella di Ed perché parla soprattutto al nucleo di sinistra dell'elettorato, trascurando le componenti più volatili.
Questa differenziazione non ci aiuta comunque a capire lo smacco, di tutt'altro genere, che ha patito la socialdemocrazia svedese. Questa non ha perso per aver stemperato troppo la sua identità storica e nemmeno per essere stata troppo poco a favore del mercato. Se c'è infatti una caratteristica che le società scandinave nel loro complesso mantengono è quella di non aver abdicato ad alcuni pilastri delle politiche istituzionali di stampo socialdemocratico: in Svezia la tassazione resta alta al pari dell'offerta di servizi pubblici e qualcosa di analogo vale anche per la Norvegia e la Danimarca. In altri termini, anche l'avvento di coalizioni di governo di centro-destra non ha alterato alcuni capisaldi del sistema economico e sociale, che conservano tratti socialdemocratici ad onta del variare delle maggioranze in parlamento.


L'insidia che sta piegando la sinistra viene oggi da un'altra parte e non ha tanto e solo a che fare con la critica liberale del Welfare state. Viene piuttosto dall'incrinarsi di quell'omogeneità sociale che a lungo ha costituito l'elemento distintivo delle società scandinave. Per comprenderne il senso forse ci soccorrono anche i fortunatissimi romanzi di Stieg Larsson, che con il ciclo di Millennium ci ha descritto un sistema sociale alquanto diverso dagli stereotipi positivi del Nord Europa. Larsson ci ha parlato di una Svezia inquieta, percorsa da cupi impulsi razzisti, appannaggio di gruppi radicali e violenti che rompono la crosta di omogeneità.
Può darsi che la sua Svezia sia altrettanto irreale di quella ben ordinata ed egualitaria custodita dalla vulgata socialdemocratica. Ma ci appare più attuale alla luce dei recenti risultati elettorali, che hanno fatto emergere uno strato consistente di xenofobia, in grado di trasformarsi nei venti seggi al parlamento della minoranza estremista che paradossalmente si definisce "democratica".


Nel Regno Unito e in Germania, la globalizzazione ha scosso il modello socialdemocratico come l'avvento della società multietnica. Ora anche la Scandinavia, dove le istituzioni del welfare e dell'economia mista avevano retto, registra l'offuscarsi di quella omogeneità sociale ed etnica che era stata finora l'argine migliore a difesa della socialdemocrazia e delle sue politiche.

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