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Questo articolo è stato pubblicato il 30 settembre 2010 alle ore 08:59.
L'ultima modifica è del 30 settembre 2010 alle ore 09:06.
Perché tanti immigrati, nei paesi che lo consentono, hanno cambiato o cambiano, ieri come oggi, il loro cognome? Una domanda solo all'apparenza curiosa che riguarda una tecnica d'integrazione mimetica assai poco conosciuta ma molto diffusa tra gli immigrati. Oggi forse meno diffusa di ieri, come spiegava un articolo del New York Times di qualche giorno fa visto che «new life in America no longer means a new name» (vita nuova in America non significa più nome nuovo).
Ma che ha rappresentato una scelta di vita per decine, centinaia di migliaia d'immigrati europei - italiani, irlandesi ed ebrei dell'ex Impero asburgico in testa - sbarcati a milioni negli Stati Uniti a cavallo della fine dell'Ottocento e lo scoppio del conflitto del 1915-18 e, in seguito, negli anni nell'immediato secondo dopoguerra.
Poiché gli esempi spesso aiutano a capire meglio di tante parole vale allora ricordarne alcuni. Quello del celebre costruttore tedesco di pianoforti Steinweg semplificato in Steinway; del boss di Chinatown Tong rinominato Tom Lee o quello, ancor più singolare, di Anna Maria Italiano ribattezzata Anne Bancroft. E nel mondo dello spettacolo restano celebri quello di Robert Zimmerman divenuto Bob Dylan, di Allen Konisberg alias Woody Allen e Bernard Schwarts rinato Tony Curtis.
Una transustanziazione anagrafica non sempre né per tutti frutto di una libera e consapevole scelta. Vent'anni fa, circa, a San Francisco, il grande poeta e scrittore Lawrence Ferlinghetti mi raccontò infatti di aver saputo di possedere un cognome italiano solo da grande. Quando i militari addetti alla selezione delle reclute gli avevano dimostrato, carte alla mano, che il suo patronimico era proprio quello e non Feeling, come gli avevano ripetuto, fin dalla nascita, i genitori. In particolare il padre che, una volta traversato l'Atlantico, aveva stabilito che per il bene della famiglia e il futuro dei figli la prima cosa da fare era quella di nascondere, cancellandole, le stimmate dell'immigrazione italiana incollate a lettere cubitali sul cognome.
Ma tornando alla domanda iniziale, come si fa a sapere, almeno per grandi linee, se la modifica del nome è veramente utile agli immigrati? O se invece, come alcuni sostengono, l'impresa non vale la spesa perché conseguenza di un vero e proprio cedimento psicologico collegato al loro spasmodico bisogno di accettazione e dalla ricerca di uno scudo contro le pressioni esterne non amichevoli verso la loro diversità?