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L'emergenza lavoro, l'afasia dei riformisti

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Questo articolo è stato pubblicato il 03 ottobre 2010 alle ore 14:25.
L'ultima modifica è del 03 ottobre 2010 alle ore 14:52.

P arlare di lavoro in questo autunno in cui la crisi economica sembra lasciare spazio ai primi timidi segnali di ripresa significa ancora discutere della sua mancanza, del lavoro che non c'è. I dati che riguardano questo aspetto della crisi, del resto, sono impressionanti. Nell'Unione europea, solo nel 2009, sono andati persi circa quattro milioni di posti di lavoro, mentre nel nostro paese, nel periodo aprile 2008-luglio 2010, il numero di occupati si è ridotto di circa 670.000 unità.

A fine 2009, in Italia si contavano più di due milioni di disoccupati, a cui vanno aggiunte le diverse migliaia di lavoratori a rischio di cassa integrazione o mobilità. Dietro la freddezza di questi numeri si nascondono drammi personali e familiari di cui la cronaca rende solo marginalmente testimonianza. Siamo di fronte a quella che credo vada definita la più grave emergenza sociale dei nostri giorni.
Questo quadro dalle tinte già fosche si incupisce ancora di più se, distogliendo lo sguardo da coloro che un'occupazione non ce l'hanno, ci soffermiamo su chi, invece, ha un lavoro precario e vive quindi in una permanente condizione di incertezza per il futuro.
Per la prima volta ci troviamo di fronte ad una generazione che rischia di vivere nell'insicurezza lavorativa ed esistenziale, che non riesce, in mancanza di un elemento essenziale quale un reddito sicuro su cui fare affidamento, a programmare (a volte anche a immaginare) il suo futuro. Parlare di lavoro non vuol dire interessarsi soltanto di un problema economico, ma pensare al futuro dei nostri figli.


Porsi il problema del lavoro significa pertanto, in primo luogo, occuparsi della sua dimensione quantitativa, e quindi definire le misure economiche che, attraverso il rilancio dell'economia e delle attività produttive, possano creare nuove opportunità occupazionali per i giovani, per le donne, per chi vive nel Meridione d'Italia, per chi non è riuscito a sottrarsi alla trappola del lavoro irregolare, per tutti coloro che attualmente sono esclusi o rischiano di rimanere esclusi dal mondo del lavoro. Significa però, non secondariamente, interrogarsi sulla qualità dell'occupazione che si spera verrà generata dalla ripresa economica. Invece, la questione della conservazione e della creazione di posti di lavoro viene attualmente declinata nel nostro paese (e purtroppo non solo da noi) nei termini di un'equazione a somma zero fra occupazione e diritti, come se a maggiore lavoro dovessero necessariamente corrispondere minori tutele.

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Spingendo all'estremo questo approccio – mi sia concessa la provocazione – si potrebbe addirittura arrivare a considerare il ricorso al lavoro nero e irregolare, quello per definizione con minori diritti, come la via più efficace per creare occupazione, o a teorizzare la stessa inutilità (o dannosità) del sindacato e di qualsiasi elemento di mediazione nel mercato del lavoro.


Il dibatto politico, in questo inizio d'autunno così frenetico, sembra non cogliere la gravità dell'emergenza. Una autentica forza riformista dovrebbe invece non solo, semplicemente, ricominciare ad interessarsi delle problematiche del lavoro, ma dovrebbe anche, a questo proposito, essere in grado di compiere una riflessione capace di leggere le dinamiche sociali, economiche e politiche della contemporaneità, di comprendere quanto di nuovo c'è nel mondo che abbiamo di fronte, senza indulgere in risposte basate su scelte puramente difensive, ma soprattutto senza sottrarsi alla sfida di pensare ad un sistema economico in grado di produrre ricchezza attraverso la valorizzazione del lavoro e non attraverso il suo depauperamento.
Per questa ragione è necessario uno sforzo per rimettere radici nei conflitti sociali nella loro complessità. Non penso di andare alla ricerca di un rapporto di tipo ideologico tra il lavoro e la politica. Penso invece alla necessità di rimettere i piedi nelle linee di frattura che attraversano il campo del lavoro: il conflitto tra garantiti e non garantiti, tra autoctoni e immigrati, tra vecchi e giovani, tra uomini e donne, per ricostruire un nesso di solidarietà. La riduzione delle disuguaglianze non è, infatti, un dato naturale, ma passa attraverso un riformismo intelligente e innovativo.
È compito della politica, della buona politica, indicare le soluzioni migliori ai problemi sociali più gravi e urgenti. Il lavoro è certamente fra questi.

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