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Washington scopre il fascino del terzo polo

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Questo articolo è stato pubblicato il 06 ottobre 2010 alle ore 07:46.
L'ultima modifica è del 06 ottobre 2010 alle ore 08:58.

Un terzo partito? Un terzo candidato presidenziale? La provocazione l'ha lanciata l'altro giorno Tom Friedman sul New York Times. Ma il dibattito è più vasto, al di là della politica e del populismo pre elezioni di novembre. Ci si chiede se il modello capitalistico americano sia ancora valido nel momento in cui modelli di "capitalismo centralizzato" e di "capitalismo autoritario e statalista", come quello russo o cinese diventano punti di riferimento internazionali.

Anatole Kaletsky, autore di Capitalism 4.0: The Birth of a New Economy in the Aftermath of a Crisis, invita gli americani ad addolcire il "mercato", pena la diminuzione di leadership economica degli Usa. Per Kaletsky, i Tea Party e l'ascesa di un personaggio controverso come Christine O'Donnell alle primarie repubblicane in Delaware danno un messaggio chiaro: «L'America sceglie di ignorare la reinvenzione del capitalismo e si rifugia in replay nostalgici del fondamentalismo del mercato... in quel modo il nuovo modello economico non sarà il prodotto del capitalismo democratico e dei valori occidentali... e l'America perderà la sua leadership».

Torniamo al seme del declino degli Stati Uniti d'America. Allo scontro dialettico che caratterizzò una buona parte del dibattito socio politico di metà fine anni 80. Al libro di Paul Kennedy, Ascesa e declino delle grandi potenze. Poi cadde il Muro di Berlino, l'America vinse la Guerra Fredda, portò la rivoluzione via internet e i "declinisti" non si fecero più sentire per qualche tempo. Ma il pendolo ha una sua logica. Friedman ad esempio recupera un libro di Lewis Mumford The condition of man in cui descrive il declino dell'antica Roma: «Il prevalere della sicurezza sulla responsabilità... il rifiuto di prendere rischi erano problemi ben prima dell'arrivo dei barbari... uno di quei passaggi storici così attuale da mandarmi un brivido lungo la spina dorsale»,scrive Friedman. In fondo la pensa come Kaletsky: «Se non si pone un freno al populismo becero dei Tea Party finiamo male». Friedman auspica l'arrivo di un partito illuminato per coagulare il voto della maggioranza degli americani.

Larry Diamond, teorico politico, professore a Stanford University, dice in un'intervista al Sole 24 Ore qualcosa di più: il movimento per favorire un terzo candidato in alternativa ai due partiti politici dominanti «ormai rigidi, corrotti, incapaci di cambiare, è già molto avanzato». «Non posso dire molto di più, ma un gruppo di importanti americani coinvolti da decenni nel governo, in politica, nel mondo degli affari, frustrati dalle attuali dinamiche politiche, sta già lavorando al progetto. E credo che una volta passato questo ciclo elettorale, per gennaio spunteranno... in modo spettacolare», dice Diamond che difende il segreto.

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Tags Correlati: Bill Gates | Christine O'Donnell | Elezioni | George Shultz | Larry Diamond | Michael Bloomberg | Paul Kennedy | Stati Uniti d'America | Tom Friedman

 

Chi sono dunque i nuovi architetti per rinnovare la democrazia americana? Fonti bene informate ci confermano i nomi dei soliti noti. Michael Bloomberg, che già orchestrò un'ipotesi di corsa presidenziale nel 2008. I "supporter"? Un movimento ondivago che batte sulle due sponde per convergere dal campo repubblicano e da quello democratico verso il centro: Warren Buffett, Bill Gates, Mort Zuckerman e altri padri della patria come l'ex segretario di stato George Shultz. «Il problema – continua Diamond – è che tutto è pietrificato, non c'è ricambio, c'è una ingerenza crescente delle risorse private nella cosa pubblica... vede non propongo un sistema proporzionale, ma cambiamenti modesti per rendere il sistema più competitivo, non per un terzo partito necessariamente, ma per facilitare l'ingresso di un terzo candidato per il 2012».

Gli chiediamo se i Tea Party non stiano già servendo allo scopo, visto che hanno spazzato l'establishment repubblicano. «Sembrerebbe così, ma il problema è che alle primarie c'è il voto più militante. E dunque i risultati sono falsati. Il Tea Party è polarizzante non unificante. Manca uno sfogo per la voce della maggioranza silenziosa. Stiamo lavorando per dare a questa maggioranza un microfono e un palco». L'idea fa presa. L'americano medio, come il cittadino medio globale, è scontento. Preoccupato. Torna in mente il 1992, quando Ross Perot cavalcò la nomina indipendente. Alla fine prese voti George Bush padre e vinse Bill Clinton. Il cambiamento di generazione allora ci fu, eccome. E l'America, senza terzo partito (o candidato) per qualche tempo se la passò benissimo.

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