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Questo articolo è stato pubblicato il 07 ottobre 2010 alle ore 09:15.
L'ultima modifica è del 07 ottobre 2010 alle ore 09:10.
La grande crisi degli ultimi anni ha dimostrato fin troppo bene come vi sia un rapporto diretto, in positivo o in negativo, tra i valori che spingono comportamenti e scelte delle persone e la dinamica del sistema economico. E non è un caso che si possa amaramente constatare come i dibattiti e le analisi sull'etica nell'economia si siano moltiplicati in misura direttamente proporzionale alla progressiva eclissi di valori che hanno lasciato troppo spesso il passo a interessi più immediati e soprattutto materiali.
Eppure si può ricordare come la società occidentale sia fondata, come ha dimostrato Max Weber, proprio su quell'etica protestante che è alla base dello spirito del capitalismo perché si esprime nella costanza del lavoro, nella metodicità, nella ferrea organizzazione del tempo, nella fedeltà a una propria "vocazione" in senso laico per lenire il senso di angoscia che deriva dal timore di non essere in grazia di Dio.
Un'etica che obbliga a non dissipare le ricchezze e a reinvestire i guadagni dando luogo a quell'accumulazione dei capitali che costituisce uno dei punti centrali delle spinte alla crescita nel libero mercato.
Lo stesso Max Weber in un libro meno noto, dedicato all'etica economica delle religioni mondiali, considera le religioni asiatiche come elementi di passività e di accettazione dell'esistente e spiega in questo modo la mancanza di sostanziali processi di cambiamento in quei mondi. Ma dalle analisi di Weber, comunque basilari nella storia del pensiero socioeconomico, sono passati cent'anni e molto probabilmente il sociologo di Erfurt rivedrebbe molte sue osservazioni se si trovasse a giudicare l'esplosione economica che ha interessato i paesi asiatici a cavallo tra il secondo e il terzo millennio.
Perché, come rilevano due grandi conoscitori della realtà orientali quali Vittorio Volpi e Franco Mazzei nel loro libro La rivincita della mano visibile, quello che avrebbe reso possibile lo sviluppo dirompente prima del Giappone, poi della Cina e dei paesi vicini quali Vietnam e Corea, sarebbe stata una matrice culturale e religiosa che ha trovato nel confucianesimo il proprio valore comune e in politiche pubbliche il principale strumento di cambiamento. «Lo stato confuciano – spiega Volpi – è interventista in quanto organizzatore dell'interesse comune che è identificato oggi nello sviluppo economico del paese». In questa dimensione il pubblico ha prevalenza sul privato che non vede la società nella prospettiva del conflitto, della contrapposizione, dell'opposizione teorica tra stato e mercato.