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Yuan o dollaro? Il conto si paga in euro

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Questo articolo è stato pubblicato il 08 ottobre 2010 alle ore 07:41.
L'ultima modifica è del 08 ottobre 2010 alle ore 08:37.

La politica parla... Il problema è lo yuan debole, dice Washington (e Bruxelles). No, è il dollaro debole, risponde Pechino.
Chi ha davvero ragione? È l'economia che dovrebbe rispondere. Qualsiasi teoria ha un banco di prova ineludibile, per quanto complesso: la verifica empirica. La scienza però si mescola a volte alla politica, alla sua retorica, ai suoi tic. Succede allora che qualche economista - anche qualche Nobel... - ragionando al di fuori della sua sfera di competenza, o al di fuori di modelli rigorosi, per convincere l'opinione pubblica, cada in una trappola.

Accade soprattutto con gli economisti americani, che tendono a considerare la loro economia come un benchmark, un punto di riferimento (a volte, e sbagliando di molto, del libero mercato), e così la loro banca centrale, profondamente diversa dalle altre autorità monetarie. Ecco allora illustri cattedratici o più modesti analisti finanziari discettare dell'economia di Eurolandia dimenticando che ha reazioni e istituzioni uniche, sicuramente diverse da quelle statunitensi; altri confondono l'interesse nazionale di Washington con il "bene comune" degli Usa e dei suoi partner; altri ancora dimenticano il signoraggio che il governo federale gode sul dollaro. L'influenza dei media americani sulla stampa economica fa il resto.

Nel caso delle valute, i policymakers europei non dimenticano mai che il problema è soprattutto il dollaro debole - il presidente della Bce Jean Claude Trichet, a suo modo, lo ha ripetuto ieri - perché l'America è il primo partner della Uem. A volte però il messaggio che il problema sia lo yuan (e non anche lo yuan, che ha un cambio quasi fisso con il dollaro) si diffonde anche nell'opinione pubblica non americana che, oltretutto, vede di fronte a sé - e questa è una realtà "dura" - aziende fallire e lavoratori perdere il posto perché non resistono alla concorrenza delle imprese cinesi.

Superare la retorica, distinguere le opinioni dalle idee è difficile. Per fare un primo passo il Sole 24 Ore - ben consapevole che il nazionalismo non ha spazio nel discorso economico rigoroso, ma anche che la razionalità è "situata", dipende dalle circostanze, dal tempo, dallo spazio, dall'incertezza - ha chiesto a tre economisti di aree emergenti, più uno europeo, italiano, come vedono la questione e - tema più politico - se ritengono possibile un grande accordo per evitare le guerre valutarie.

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Tags Correlati: Asian Development Bank | Bce | Borsa di Mosca | Brasile | Bruxelles | Enzo Farulla | Fed | Fmi | Germania Ovest | Giappone | Jean Claude Trichet | Jiabao | Mercato dei cambi | Natalia Orlova | Outlook | Pechino | Roberto Mialich | Stati Uniti d'America | Unione Europea | Wen Software |

 

Il parere degli economisti "non allineati"
1) Il vero pericolo, come dice Wen Jiabao, è la svalutazione del dollaro?
2) Ci sono le condizioni per un nuovo «accordo del Plaza» per stabilizzare le valute?

Tra la Ue e la Cina l'intesa sarà facile...
Juzhong Zhuang
Capo economista Asian Development Bank
1) Il vero pericolo per l'Europa e la sua politica di esportazione è senza dubbio la svalutazione del dollaro. Questa è la vera sfida per l'Unione Europea e per la sua economia, un terreno dove non dovrebbe essere difficile trovare una convergenza tra la troika economica di Bruxelles e il premier cinese Wen Jiabao. La Cina oggi è un ottimo partner commerciale dei 27 paesi della Ue e ci sono grandi margini potenziali di sviluppo dell'interscambio tra i due blocchi commerciali tenendo conto che le nostre stime di crescita, cioè dell'Asian Development Bank, circa l'economia cinese sono di un Pil al 9,6% nel 2010 contro un incremento più ottimista contenuto nell'Outlook del Fondo monetario internazionale che ha alzato le stime dal 10 al 10,5 per cento. Ma stiamo parlando di discordanze di decimali che non cambiano le dimensioni dell'impetuosa crescita di Pechino.
2) Non so rispondere sulla possibilità o meno della riuscita di un nuovo accordo come quello siglato al Plaza nel 1985 dove al posto dello yen ci sarebbe lo yuan. Dico solo che nel lungo termine è possibile prevedere una maggior flessibilità del cambio della valuta cinese, ma nel breve questo è molto più difficile da realizzare a causa degli effetti destabilizzanti che questa decisione avrebbe sull'economia cinese e su quella asiatica in generale. Concordo con i timori del premier Wen Jiabao quando chiede di non fare troppe pressioni sullo yuan perché questa mossa potrebbe essere un disastro per il mondo.

La politica di Pechino è uno snodo cruciale
Natalia Orlova
Chief economist Alfa-bank, Mosca
1) Credo di poter essere d'accordo con il fatto che dal momento che il commercio europeo è in gran parte focalizzato all'interno dell'Unione Europea, la debolezza dello yuan non colpisce l'Europa con la stessa forza con cui coinvolge gli Stati Uniti. L'Europa è soprattutto sensibile di fronte al tasso di cambio dollaro/euro. Tuttavia, la disponibilità della Cina a permettere un apprezzamento dello yuan sarebbe cruciale come sostegno alla crescita economica globale. In particolare, se la Cina fosse pronta a stimolare il consumo locale, consentirebbe ai produttori europei di trovare nuovi mercati. In questa chiave, la politica cinese sui cambi viene piuttosto considerata come un punto di passaggio obbligato per consentire la ripresa dell'economia globale. Per quanto riguarda invece il rapporto tra la Cina e la Russia (entro la fine dell'anno la Borsa di Mosca inizierà a trattare yuan contro rubli, ndr) gli scambi yuan-rublo avranno un'influenza positiva sull'interscambio commerciale, ma un impatto limitato sull'economia e sui mercati.
2) In questo momento una cooperazione sul piano globale è assolutamente necessaria, e tuttavia di solito questo approccio ha successo quando un paese è in grado di prendere la guida nel proporre una nuova soluzione. Oggi un certo numero di paesi ritiene che spetti alla Cina giocare questo ruolo: ma la Cina non sembra avere alcuna fretta nel voler soddisfare questa richiesta.

La leva del cambio è una tentazione forte
Roberto Mialich
Director, FX Strategist UniCredit Group
1) La brusca risalita dell'euro da 1,2650 di inizio settembre all'1,40 toccato ieri è quasi esclusivamente ascrivibile ai segnali lanciati dalla Fed a favore di una politica di allentamento quantitativo (quantitative easing), tramite acquisto massiccio di titoli di Stato e conseguente incremento di liquidità. Questo ha provocato il massiccio calo del dollaro, creando timore di una guerra valutaria. Da qui la tentazione dei governi di usare il cambio per provare a stimolare la crescita attraverso l'export o ad evitare un ulteriore apprezzamento delle proprie valute, che creerebbe deflazione e un ulteriore peggioramento della congiuntura, come stanno provando a fare Giappone e Brasile, anche se con scarsi risutati.
2) La Cina sembra giocare oggi il ruolo che ebbe il Giappone ai tempi del Plaza. Ma le differenze sono molte: all'epoca l'esigenza di indebolire il dollaro era condivisa dal Gruppo dei Cinque: il dollaro veniva da una fase di forza durante la presidenza Reagan e aveva bisogno di requilibrare i deficit gemelli; la Germania Ovest voleva un marco forte come difesa esterna allo Sme. Oggi il dollaro è già vicino ai minimi storici; lo yen è ai massimi, e un euro verso 1,50 priverebbe Berlino del vantaggio competitivo che un cambio 1,18 ha fornito al Pil tedesco nel 2° trimestre. Un nuovo Plaza o un forte indebolimento del dollaro non compensato da una rivalutazione cinese, e quindi sopportato dal resto delle monete del G-10 nell'attuale congiunura, rischierebbe solo di esportare deflazione dagli Usa al resto del mondo. Con scarsi benefici anche per le stesse esportazioni nette americane.

È arrivato il momento per un patto globale
Enzo Farulla
Latin American senior economist
1) La Cina ha in mano il 40% delle riserve mondiali di valuta. Possiedono molto debito americano che si sta svalutando e poche riserve in euro. Tutti chiedono che la moneta cinese si svaluti contro il dollaro ma loro resistono perché incasserebbero una doppia perdita: svalutazione della loro moneta e delle loro attività in valuta. Il nuovo scenario va visto guardando ai numeri, ma soprattutto alla tendenza: gli Usa possedevano il 70% del commercio mondiale, ora il 60% e il trend è verso un calo. La Cina aveva una quota del 5%, ora del 12 per cento. Qui la tendenza è in crescita. Sul fronte latinoamericano il Brasile sta guadagnando posizioni ed è sempre più un player globale, non solo a livello commerciale ma politico e diplomatico.
2) È indispensabile un nuovo accordo valutario, tipo quello dell'Hotel Plaza. Da allora lo scenario è completamente cambiato e per questo le regole vanno riscritte: nel 1985 il peso di Brasile e Cina era quasi inesistente. L'euro non esisteva, c'era l'Ecu. Basti pensare che il real brasiliano continua a rivalutarsi per il continuo flusso di capitali in entrata: Olimpiade, campionati del mondo di calcio, richiedono grandi opere infrastrutturali. Il problema è che i leader politici non sembrano disposti ad affrontare la questione, il disequilibrio valutario. Ci sono delle fazioni in guerra (valutaria) e nessuna disponibilità a trovare un accordo. Se la politica non si assumerà le responsabilità sarà l'economia a farlo.

TESTI A CURA DI Roberto Da Rin, Vittorio Da Rold, Antonella Scott

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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