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Questo articolo è stato pubblicato il 09 ottobre 2010 alle ore 09:56.
L'improvvisa accelerazione del federalismo fiscale è per certi aspetti positiva: dopo un lungo periodo di stasi e di retorica, la politica ha deciso di tornare concretamente sul tema. È opportuno ricordare che dei dodici decreti che devono essere approvati entro il maggio 2011, pena la scadenza della legge delega, finora solo due, quello sul federalismo "demaniale" e su Roma Capitale (e quest'ultimo solo per gli aspetti regolamentari del comune di Roma) hanno finito il loro iter. Tutto il resto, comprese le proposte sul fisco comunale e sulla stima dei fabbisogni degli enti locali, di cui pure si sono riempite le pagine dei giornali, restano ancora in divenire.
Ma non si può non segnalare il pericolo che quest'improvvisa accelerazione avvenga sotto il segno dell'improvvisazione, e che sia più funzionale alla propaganda pre-elettorale che al raggiungimento di una configurazione stabile ed efficiente nei rapporti finanziari tra livelli di governo. E questo sarebbe un peccato, perché significherebbe perdere l'occasione di introdurre una riforma importante, capace di migliorare il funzionamento della nostra amministrazione locale. Il rischio cioè, più che la spaccatura del paese temuta da alcuni e desiderata da altri, è che il tutto si risolva in un gran pasticcio, un passo indietro piuttosto che avanti.
Mi limito a qualche esempio. Introdurre una standardizzazione dei costi nella sanità che guidi l'allocazione delle risorse e spinga le amministrazioni regionali verso l'ottenimento di maggiori livelli di efficienza, è un elemento necessario, anche se probabilmente non sufficiente, del percorso verso il federalismo fiscale. Per affrontare il problema, il governo interpreta nel decreto appena licenziato dal Consiglio dei ministri i costi standard della legge delega come spesa procapite pesata nelle principali funzioni sanitarie, più o meno quello che si fa già adesso. La novità è che questi costi standard dovrebbero essere non quelli medi nazionali, ma quelli delle regioni più efficienti, che rappresenterebbero un benchmark per le altre.
Di qui, la spinta all'efficienza. Ma il decreto è scritto tanto male, per imperizia o per improvvisazione, che chi si è messo a fare i conti ha scoperto che i costi standard come definiti dal decreto sono in realtà del tutto ininfluenti nel determinare la distribuzione delle risorse tra regioni, che resta puramente legata alla popolazione pro capite pesata (si veda per esempio Vittorio Mapelli su lavoce.info). Tanto rumore per nulla, dunque. Del resto, nonostante le pressanti richieste delle regioni, il governo non è riuscito ancora a presentare uno straccio di simulazione che indichi in che modo il nuovo riparto del fondo sanitario nazionale dovrebbe differire rispetto all'esistente.