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Commenti e Inchieste

Il Pd sul filo dell'economia

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Questo articolo è stato pubblicato il 10 ottobre 2010 alle ore 08:02.

Nonostante la crisi del governo Berlusconi e l'avvicinarsi delle elezioni, il Partito democratico, fresco di assemblea nazionale a Busto Arsizio, stenta a definire una sua identità politica. Il dibattito è più sulla leadership (Bersani, Veltroni o Vendola?) o sulle alleanze politiche che su questioni di economia e di etica pubblica. Ciò non aiuterà i cittadini a scegliere il candidato del centro-sinistra alle primarie.

Fuori d'Italia la sinistra è impegnata in un confronto critico fra due grandi linee. Negli anni 90 la terza via di Blair e Clinton superò le politiche tradizionali della sinistra (stato pesante, difesa incondizionata dei posti di lavoro, aumento della tassazione) in favore di sviluppo, efficienza dei servizi pubblici e incremento della partecipazione alla forza lavoro. Dopo la crisi del 2008 abbiamo assistito a un ritorno a politiche di sostegno della domanda, maggiore presenza dello stato nell'economia e a una riscoperta delle politiche industriali a difesa dell'industria nazionale. Ma il Pd non può e non deve ispirarsi alle politiche di Obama, principalmente perché il nostro paese si trova in una situazione molto diversa da quella Usa.

Il nostro debito pubblico è già troppo elevato perché si possa proporre un ulteriore aumento del disavanzo. Non abbiamo alle spalle una politica di tagli alle tasse e deregolamentazione dei mercati. L'uscita dello stato dall'economia è stata solo parziale, come si può vedere guardando la classifica delle grandi società quotate, o il mercato delle utility, o il peso delle fondazioni bancarie e delle municipalizzate. A differenza degli Usa, l'Italia ha una pressione fiscale elevatissima, una bassissima crescita della produttività e un grave problema storico: un terzo del territorio, il Mezzogiorno, appartiene ancora alle aree svantaggiate dell'Unione Europea, non attira investimenti diretti e ha un tasso di occupazione di appena il 44 per cento. Infine, la disponibilità e la qualità dei servizi pubblici (istruzione, sanità, trasporti, public utility) è bassa in diverse parti del territorio nazionale, per ragioni di inefficienza più che mancanza di finanziamenti pubblici.

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Tags Correlati: Agenzia Entrate | Italia | Ocse | Pd | Salari e stipendi | Stati Uniti d'America

 

Gli schieramenti politici italiani nei prossimi anni si confronteranno su tre capitoli: riduzione della pressione fiscale, qualità della formazione ed efficienza del mercato del lavoro. Il Pd dovrebbe, già da ora, dire come la pensa.

Fisco. L'ultimo governo di centro-sinistra ha varato una riforma fiscale che aveva lo scopo di aumentare la progressività a beneficio dei redditi medio-bassi. Ma l'impatto redistributivo è stato modesto e ha avuto un costo elevato in termini di efficienza e di consenso popolare. Un paese in cui la metà circa dei contribuenti dichiara un reddito non superiore ai 15mila euro e il 52% del totale dell'imposta è pagato dal 13% dei contribuenti con redditi oltre i 35mila euro, non può aspirare a raggiungere obiettivi di equità sociale mediante una rimodulazione delle aliquote. Il nostro è già un sistema fortemente progressivo. Forse è il momento di dare più peso agli effetti che questo sistema ha sulla crescita del reddito più che alla redistribuzione. Una riduzione delle aliquote Irpef e Ires è possibile oggi, se fatta contemporaneamente a una riduzione della spesa pubblica, in particolare dei trasferimenti.

Formazione. La scuola italiana continua a essere in una posizione mediana nelle classifiche Timss (per studenti di 9 e 13 anni), sotto Ungheria e Serbia. In quelle Pisa (15 anni) siamo nella metà inferiore, sotto Grecia e Portogallo. L'università italiana sta perdendo posizioni invece di guadagnarne, per gli indicatori che contano, in particolare le pubblicazioni internazionali. I dati sui paesi Ocse dimostrano che questi problemi non dipendono da carenza di finanziamenti pubblici (gli insegnanti sono troppi e mal pagati), ma da cattiva organizzazione e dall'assenza di incentivi. La disponibilità di una valutazione a livello nazionale della qualità dei risultati dell'insegnamento e della ricerca (Invalsi e Civr) è un mezzo prezioso per misurare l'efficienza delle scuole e degli atenei. Su quella base si possono introdurre trattamenti differenziati degli insegnanti e finanziamenti che premino i risultati. Per avere più risorse, le università potrebbero adeguare le tasse di iscrizione al costo reale, introducendo forme di finanziamento degli studenti basate su prestiti con riscossione garantita dalla agenzia delle Entrate, come nell'esempio australiano.

Occupazione. Infine, il grande tema che non può essere eluso dal Pd è quello del mercato del lavoro e, in particolare, dei contratti nazionali e della flessibilità. Una maggiore decentralizzazione della contrattazione consentirebbe di riportare il costo del lavoro in linea con la produttività nei diversi settori e nelle diverse aree geografiche del paese. In assenza di queste scelte sarà difficile recuperare il ritardo del Mezzogiorno, frenare la diffusione dei contratti a termine (caratterizzati da una minore copertura assicurativa e previdenziale) e attirare investimenti diretti dall'estero. Pochi anni fa fu avviata una discussione all'interno del centro-sinistra sulle virtù di un modello basato su maggiore flessibilità contrattuale in cambio di un più ampio sistema di ammortizzatori sociali. A che punto è questa discussione?

Il problema della sinistra italiana è quello di trovare una sintesi tra due esigenze in conflitto tra loro. Da una parte, aumentare la produttività, la partecipazione alla forza lavoro, l'efficienza della Pa, e la qualità dei beni pubblici. Dall'altra, correggere gli squilibri sociali. Con quest'ultimo termine, tuttavia, non si deve intendere una mera difesa della quota di reddito che va al lavoro dipendente. Gli squilibri italiani sono principalmente dovuti ai rischi connessi all'attività lavorativa (rischi di impiego), alla difficoltà di accesso ai mercati dovuta alle rendite di monopolio e alle barriere legali, e alle scarse opportunità offerte ai giovani. È vero che l'Italia è un paese con indici di disuguaglianza elevati (non diversi da quelli dei paesi anglosassoni), ma ciò non dipende principalmente dalla distribuzione dei salari contrattuali, né dal premio all'istruzione, né da fattori geografici. Le disuguaglianze si devono in particolare ai bassi livelli di retribuzione e agli elevati rischi di impiego delle categorie meno protette del mercato del lavoro: i giovani, gli immigrati e i lavoratori autonomi che operano nei mercati aperti alla concorrenza.

Il Pd, insomma, è a un bivio, fra una terza via per affrontare i problemi strutturali del paese, e una via basata su spesa pubblica e sussidi. Occorre decidere, o seguire il consiglio del saggio: «Quando arrivi a un bivio nella tua via, prendilo».

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