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Questo articolo è stato pubblicato il 10 ottobre 2010 alle ore 08:02.
Il concetto di Big Society, proposto come punto chiave dell'agenda del premier inglese David Cameron (si veda Il Sole 24 Ore dell'8 ottobre), è solo riducibile alla revisione in senso liberale di un modello economico o è anche una ridefinizione politico-filosofica dei rapporti tra individui, società e stato che implica una certa idea di uomo?
Nel discorso programmatico del 19 luglio a Liverpool Cameron afferma: «Si tratta di un grande cambiamento culturale, in cui le persone, nella vita di tutti i giorni, nelle loro case, nei quartieri, nei posti di lavoro, cessano di rivolgersi a funzionari, autorità locali o governi centrali per trovare le risposte ai problemi che incontrano, e sono invece abbastanza forti e libere da aiutare loro stesse e le loro comunità». Big Society vuol dire «comunità capaci di costruire nuovi edifici scolastici, dire servizi capaci di formare al lavoro, fondazioni che aiutano a riabilitarsi». Al centro della Big Society c'è quindi innanzitutto una certa idea di uomo e del valore della sua iniziativa (fondamento del principio di sussidiarietà). Un uomo concepito non come individuo isolato, ma come essere strutturalmente relazionale (accento che troviamo forte nell'enciclica Caritas in veritate di Benedetto XVI), e che realizza i suoi scopi mettendosi insieme ad altri uomini. Il concetto di "comunità" di Cameron è ciò che ha dato vita ai corpi intermedi, tipici della tradizione secolare e attuale del "welfare sussidiario". Fin dal Medioevo, scuole, ospedali, opere di assistenza, università ecc. sono nati dall'azione di comunità di uomini mossi da criteri ideali. Anche oggi, in tutto il mondo, realtà fondamentali per il nostro benessere - dalla Mayo Clinic di Rochester, alle grandi università americane, al Food Bank (o Banco alimentare di casa nostra) - nascono e crescono per l'azione di queste comunità di cittadini non assimilabili né al privato for profit né all'ente pubblico.
Ne deriva un'idea innovativa (sicuramente per l'Italia) del rapporto tra stato e opere nate dalle realtà di base. Dice ancora Cameron: «Perciò il governo non può restare neutrale: deve promuovere e sostenere una nuova cultura del volontarismo, della filantropia, dell'azione sociale. Dobbiamo liberarci di una burocrazia centralizzata che spreca soldi e fiacca lo spirito pubblico. Al suo posto dobbiamo dare molta più libertà ai professionisti, aprire il servizio pubblico a nuovi operatori come fondazioni, imprese sociali, aziende private, e così offrire più innovazione, diversità e responsabilità nei confronti delle domande pubbliche». È ancora una volta la concezione di sussidiarietà antica e moderna che riconosce il valore di realtà che, pur non essendo di diritto pubblico, sono di pubblica utilità. Una concezione che suggerisce una teoria e una prassi ben lontana dalla neutralità (o, peggio, dall'ostilità) con cui l'ente pubblico, anche nel nostro paese, per lo più vede l'azione del privato sociale.