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Questo articolo è stato pubblicato il 26 ottobre 2010 alle ore 07:48.
L'ultima modifica è del 26 ottobre 2010 alle ore 08:42.
Caro Vendola,
ti chiamano il poeta. Tra derisione e disagio. Perché parli in modo fantasioso, oscuro o almeno ombreggiato. Ti chiamano così non solo perché hai usato versi (o qualcosa di simile) in campagna elettorale, ma anche perché un po' di poesia ce l'hai davvero addosso, nella memoria e nel sangue. Dicono che comunque non sarai un avversario temibile per chi del Pd accettasse di misurarsi in primarie. Non è di politica che voglio parlarti, o almeno non di quella che in molti chiamano politica e invece è qualcosa senza carne né sangue. Voglio infatti parlarti di poesia.
Perché hai avuto il coraggio, l'onore, la sfrontata maledizione di non nascondere il gergo della politica da quello della poesia. Perché hai avuto la terribile, ustionante responsabilità addirittura di indicare il Vangelo, sì quel libro che non è uguale a nessun libro, come punto di ripartenza. Sai che trascinare la poesia, e poi lui, il Vangelo medesimo, che è belato e compiersi di ogni poesia, dentro questo agone furioso e decadente della politica italiana, è un atto estremo. Grave, come devono essere i gesti di chi si sta giocando l'anima non solo la carriera politica.
Vuoi che sia così. Per questo la mia ammirata costernazione, la mia tremante quasi stordita attesa. E la mia incondizionata amicizia, qualunque idea ci divida. So bene, avendolo provato nell'altro campo altrettanto violento anche se più segretamente, quello della cultura italiana, che tirare in ballo la poesia e il Vangelo significa esporsi a trafila infinita di disprezzi, sospetti e odiosi fraintendimenti. So che l'osare tirare fuori lei, la più nuda e povera delle arti e lui, il più nudo e indifeso degli dei, il più violato e deriso Cristo, mette automaticamente dalla parte dei bersagli. Si diventa uomini a cui rinfacciare tutto, ogni debolezza, ogni infedeltà. Solo per aver osato affermare l'esistenza di qualcosa di più grande di se stessi, la torma dei ricurvi, dei cinici, dei contabili di soldi e di anima ti fa sentire più ignobile di quanto ognuno di noi già sia. E dunque il tuo gesto di poeta e cristiano sarà oggetto di ogni scherno.
Hai mostrato nel tuo discorso il coraggio di non recitare una parte che ti volevano già tagliare addosso. Hai reso omaggio a realtà che molti sanno solo offendere, hai evitato banali anticlericalismi. Diranno che lo fai per strategia. Non importa. Il gesto di convocare di nuovo la poesia nella stremata lingua italiana pubblica e l'aver convocato di nuovo il Vangelo - il più disponibile e dunque umiliato e povero parlare - è un gesto che mi convince. Sarà una pazzia farlo in questa Italia cinica e maldestra? Neppure questo importa. Importa solo che la poesia e quel Vangelo siano per te e per noi correzione e medicamento, e più ancora invito di umiltà e pazienza. Perché il compito che hai deciso di assumere è grande e necessita di ogni risorsa di anima per non essere vanità o terminare come sola, sperduta variante linguistica minore.