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Questo articolo è stato pubblicato il 26 ottobre 2010 alle ore 08:04.
L'ultima modifica è del 26 ottobre 2010 alle ore 09:04.
«Senza l'Italia la Fiat andrebbe meglio» è certo un'affermazione forte. Ma l'amministratore delegato del Lingotto Sergio Marchionne, pronunciando queste poche parole di fronte a milioni di telespettatori nella trasmissione Rai di Fabio Fazio, non è incorso in un incidente linguistico o in uno scivolone parapolitico.
Semplicemente, voleva esprimere con chiarezza ciò che pensa e che risulta dalla constatazione dei numeri, questa volta più ruvidi che rotondi. E i numeri dicono che la Fiat ha totalizzato nei primi nove mesi del 2010 due miliardi di euro di utili, di cui neanche uno proviene dall'Italia. Di più: in termini di produttività, il risultato del derby interno alla Fiat segnala che il solo impianto polacco "batte" i cinque stabilimenti italiani.
Piaccia o non piaccia questa è la realtà, e da questa si deve partire. Farne una questione di passaporto (lo stesso Marchionne ha detto di averne due, uno italiano e uno canadese, e di essere residente in Svizzera) per avvalorare l'idea di uno scarso attaccamento al Tricolore – lui, figlio di un carabiniere, che si è anche definito un "socialdemocratico" europeo – lascia il tempo che trova. Colpisce, in questo senso, che il presidente della Camera Gianfranco Fini abbia rispolverato toni polemici di un nazionalismo datato e piccolo piccolo.
Né serve inseguire la retro-bolla ideologica caratteristica di sempre: l'altro ieri Vittorio Valletta, ieri Cesare Romiti, oggi Sergio Marchionne sono i capi-azienda nominati dai "padroni" (in questo caso, la famiglia Agnelli) che impongono le loro opache manovre neoliberiste per affossare la classe operaia e guadagnare fiumi di soldi. Via, non scherziamo.
D'altra parte, non serve nemmeno far finta che la Fiat (Fabbrica Italiana Automobili Torino) sia un'azienda come un'altra, e siamo convinti che Marchionne, arrivato al timone nel 2004, lo abbia ben presente e che non voglia ricalcare, a Torino o a Detroit, al quartier generale della Chrysler, le orme romanzate del "Marziano a Roma" dell'impareggiabile Ennio Flaiano, abruzzese come lui.
Che questa grande impresa, con tutti i suoi pregi e i suoi difetti, sia specchio e insieme motore dell'identità italiana è un fatto sedimentato da una storia ultracentenaria. Molto ha dato in termini di innovazione e spinta alla modernizzazione. Molto (e in buona compagnia) ha ricevuto in termini di incentivi alla rottamazione, altri sussidii pubblici e prepensionamenti. Ma questo non sposta di un millimetro la questione che si pone oggi, sul finire dell'anno 2010.