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Questo articolo è stato pubblicato il 27 ottobre 2010 alle ore 06:43.
L'ultima modifica è del 27 ottobre 2010 alle ore 10:24.
«Di questo parleremo dopo». Quando domenica pomeriggio, con molta gentilezza, Fazio Fazio a «Che tempo che fa» ha provato a domandare delle nuove autovetture, Sergio Marchionne ha reagito così. Per poi aggiungere: «Di modelli ne abbiamo quanti ne vogliamo». Che cosa è Fabbrica Italia? Un progetto da 20 miliardi di euro. Con una dialettica, dura, con i sindacati: investimenti in cambio di governabilità delle fabbriche.
Sì, ma che cosa è Fabbrica Italia? Scusate l'insistenza. La domanda non suoni peregrina. Ogni impresa è un organismo complesso.
E la sua identità non è soltanto composta da linee produttive, bilanci, budget finanziari, laboratori. È anche formata da una strategia comunicativa e da un atteggiamento culturale. In questo senso la Fiat di Marchionne è una multinazionale figlia dei suoi tempi, modellata a immagine e somiglianza del suo risanatore. È diretta, quasi brutale nella sua neutralità. Formula messaggi buoni per qualunque parte del mondo. Parla la neolingua dei mercati globali.
E, così, un progetto complesso come Fabbrica Italia, pensato durante un passaggio storico quale lo spin-off dell'auto e la futuribile fusione con Chrysler, è sembrato ad alcuni osservatori quasi calato dall'alto, senza tenere conto della realtà italiana. Un po' di campagna istituzionale, pagine pubblicitarie sui giornali, comunicazione tradizionale. Sotto il profilo formale, tutto perfetto. Nella sostanza, però, tutto molto diverso dal modus operandi a cui il Lingotto ha abituato la società italiana. Per cento anni la Fiat si è infatti comportata, nel bene come nel male, da impresa-istituzione: ha condizionato lo stato, ha influenzato le scelte del paese (per esempio favorendo la costruzione di strade e autostrade ma sfavorendo il trasporto ferroviario), ha avuto degli obblighi (l'intangibilità degli stabilimenti del Sud, in particolare di Termini Imerese).
Questo incardinamento reciproco della Fiat nelle carni vive del paese e l'intreccio fra i gruppi dirigenti di Corso Marconi e le élite italiane venivano oliati da una sofisticata organizzazione del consenso. E, così, su un grande progetto di cambiamento, la Fiat classica, quella rappresentata dal profilo romano di Gianni Agnelli e dalla mascella volitiva di Cesare Romiti, avrebbe messo in moto una macchina del consenso insieme dura e soffice, che aveva il suo perno nell'attività di Cesare Annibaldi, capo della relazioni interne e industriali. In un passaggio paragonabile a quello marchionnesco, la Fiat di allora avrebbe organizzato un grande convegno attraendo il meglio della intellighenzia italiana e straniera. Lo avrebbe potuto fare perché beneficiava di un network di buoni rapporti che innervava tutta la società italiana. A Torino c'erano gli intellettuali einaudiani, che scrivevano sulla Stampa e collaboravano con la Fondazione Agnelli. Sempre a Torino operavano uomini del Pci che, su Botteghe Oscure, pesavano proprio in funzione della loro appartenenza alla città fabbrica: da Piero Fassino ad Adalberto Minucci, potente capo della stampa e della propaganda. A Roma e a Milano si trovavano invece le sedi di quotidiani e di riviste della sinistra ortodossa e critica. Con un tran tran durato trent'anni, gli uomini della Fiat passavano spesso a parlare con i direttori. E la pubblicità, legittima e ben accetta, non diventava soltanto un veicolo per fare conoscere i nuovi modelli usciti da Mirafiori, ma costituiva anche uno strumento con cui costruire buoni rapporti.