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Viaggio tra i giovani americani rassegnati

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Questo articolo è stato pubblicato il 29 ottobre 2010 alle ore 09:08.

Harry è un "freshman", una matricola all'università del Wisconsin, a Madison, la capitale dello stato che sfoggia al centro della città il parlamento locale, grande cupola, quattro ali diagonali e molte colonne neodoriche. Quest'anno a Madison, di fatto una città universitaria, ci sono state 25mila matricole. Harry, ciuffo biondo su una pelle lentigginosa, ha scelto fisica.

E ha avuto la fortuna di essere uno dei 104 studenti del college ammessi per questo semestre a partecipare a un progetto che studia e sperimenta, su un vero piccolo reattore nucleare, un impianto invidiabile per molte università avanzate che occupa l'intero scantinato della facoltà. «Studio con studenti più avanti di me e questo è eccitante. Il problema è che mi dicono, loro che ci sono passati, che un lavoro me lo posso sognare e non me lo dicono per prendermi in giro, hanno l'aria seria di chi non sta affatto scherzando. Oggi penso a questo, non al voto. Cosa vuole che cambi con il mio voto»

A Colorado Springs, nel cuore delle Montagne Rocciose, siamo andati a Colorado College, un'università molto più piccola, seimila studenti in tutto, duemila matricole, metodo avveniristico di studi, con il cosiddetto block system che concentra ogni corso al 100% in tre settimane e mezzo. Uno dei professori che incontriamo, insegna letteratura e cinema, non è incoraggiante, anzi, è cinicamente scanzonato: «Oggi non prepariamo i ragazzi per fare un mestiere, ma perché siano pronti a tutto, non garantiamo un lavoro, non lo garantisce nessuno, sottolavoro forse sì, ma un lavoro no. Per questo cerchiamo di garantire che quando escono da qui potranno fare bene in qualunque cosa avranno la fortuna di trovare, perché oggi passare dall'università al lavoro è un po' un gioco d'azzardo». Juan Ramirez, uno dei dirigenti dell'Università, conferma. Ma non è arrabbiato. Solo rassegnato: è un po' come se tutti si fossero adattati a una nuova realtà, dice.

Suo figlio si è laureato proprio qui poco più di un anno e mezzo fa. Oggi lavora nella campagna per il Senato di Michael Bennet uno dei pochi democratici in America a trovarsi in una posizione competitiva contro un avversario sponsorizzato dai Tea Party, Ken Buck, il procuratore distrettuale. È una corsa importante in uno stato importante, che ha sofferto più di altri la crisi immobiliare. Il costo di questa corsa è stimato in circa 35 milioni di dollari ma il figlio di Ramirez è volontario, non guadagna una lira: «Mi devo ancora occupare di lui – dice Ramirez, 54 anni – gli passo un mensile, oggi è così. Detto questo, per lui è una grandissima opportunità. I suoi compagni sono in condizioni ben più difficili, se Bennett vince per lui potrebbe esserci un posto a Washington, allora sì che ci potrà essere un trampolino importante».

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Tags Correlati: Barack Obama | Bennett | Enterprise | Harvard | John Boehner | John Kasich | Juan Ramirez | Ken Buck | Michael Bennet | Oberlin | Scuola e Università | Stanford | Stati Uniti d'America | Ted Strickland | Università di Princeton | Università di Yale | Yes

 

Il viaggio continua in Ohio, altro grande esempio di heartland americana. È il più instabile degli swing states, nessun partito ha una presa sicura sugli elettori. La maggioranza ottenuta da Obama e dai democratici nel 2008 è adesso seriamente in pericolo. Questa è la patria di John Boehner, che sarà quasi certamente il prossimo presidente della Camera. Anche perché questo swing state che ha regalato la presidenza a Obama oggi ha perso 400mila posti di lavoro, ha un tasso di disoccupazione vicino al 10% e il governatore democratico, Ted Strickland, una colonna del partito democratico, rischia di perdere contro il candidato repubblicano, John Kasich. Intanto i prezzi crollano, l'economia si adatta. Columbus, la capitale non è molto ordinata, ma almeno il Ramada Inn costa 49 dollari a notte e l'auto in affitto della Enterprise 17 dollari al giorno. Con l'assicurazione 34 dollari. Si parte per Oberlin altra città universitaria. Altro umore depresso. Anche perché a Oberlin c'è uno dei più importanti conservatori americani. E di questi tempi per i musicisti, con i fondi per la cultura ridotti all'osso e le fondazioni in difficoltà, non c'è molto da stare allegri. «Ma non è questo il problema – dice Lucy, aspirante violinista, che studia da quando aveva sette anni – il problema è che oggi i musicisti più bravi arrivano dall'Asia, altro che concorrenza manifatturiera... Pazienza, sarò concertista. Spero almeno di poter insegnare da qualche parte, ma anche questo non è certo. Oggi ci dobbiamo arrangiare, non c'è molto da fare: è il mondo che cambia, non noi».

Per questo, per Lucy, per Harry, per Juan Ramirez ci permettiamo di contraddire l'Economist: con le elezioni in arrivo martedì prossimo gli americani non sono "arrabbiati" - "Angry America", come spiega l'autorevole copertina del magazine in edicola ieri. Ci sono sembrati piuttosto preoccupati, rassegnati. Che forse è peggio. Lo abbiamo capito solo alla fine di questo viaggio trasversale per il paese, dal Colorado al Wisconsin, all'Ohio che abbiamo girato per capire dove fossero finiti la «speranza», lo «Yes we can», che solo due anni fa hanno catapultato Barack Obama alla Casa Bianca.

È stato, per scelta, un viaggio lontano dalle manifestazioni dei Tea Party e dal clamore dei comizi organizzati in campagna elettorale. E in questo viaggio ci siamo accorti che, dietro le interminabili porte e finestre murate che abbiamo visto alla periferia di Milwakee, c'è più ansia che rabbia. Un denominatore comune che abbiamo ritrovato nella desolazione del villaggio perfetto, nuovo di zecca, fatto di centinaia di case vuote, vicino all'uscita 310 della Interstate 25 tra Denver e Colorado Springs. E al di là della stradina di campagna che porta a Delaware, in Ohio, dove c'è un altro college triste e dove incrociamo una carrozza a cavallo con Amish in palandrane nere a bordo.

Lo abbiamo capito soprattutto fra i giovani, con cui abbiamo parlato in queste università e in questi college dell'America "normale", lontani dai campus privilegiati di Harvard, Columbia, Yale, Princeton o Stanford. Un mondo universitario fatto di milioni di ragazzi che formano la vera spina dorsale del paese. E quando li abbiamo incontrati, a Boulder, a Colorado College, a Madison, a Weslyan Ohio, a Oberlin, abbiamo scoperto i volti sconsolati della "generazione perduta". Non quella romantica, post Prima guerra mondiale di Hemingway, Fitzgerald, Eliot. Ma quella di giovani classe 2014 che per la prima volta nella storia americana guarda al futuro senza la certezza di un lavoro. E con la preoccupazione, non la rabbia, che lo spirito americano, come ci diceva ieri l'ex senatore Gramm, si sia appassito. Senza capire bene come potrà rifiorire.

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