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Questo articolo è stato pubblicato il 04 novembre 2010 alle ore 09:14.
L'ultima modifica è del 04 novembre 2010 alle ore 09:04.

I Tea Party hanno fatto vincere le elezioni ai repubblicani. Entusiasmo, partecipazione, mobilitazione sono stati gli ingredienti fondamentali del successo conservatore di metà mandato. Senza i Tea Party non ci sarebbe stato niente di tutto ciò. Immaginatevi se la rabbia populista si fosse coagulata intorno a un terzo partito: il Grand Old Party sarebbe scomparso del tutto e i democratici avrebbero mantenuto la maggioranza dei seggi al Congresso.

La scelta istituzionale di questo movimento populista, spontaneo e autentico, di restare saldamente dentro il Partito repubblicano, di aiutare il mondo conservatore a sintonizzarsi sulla protesta antistatalista, se non addirittura di cambiarlo radicalmente dall'interno, ha chiuso definitivamente i giochi di midterm.

I Tea Party peraltro sono anche degli strani populisti. Gli unici al mondo a non chiedere soldi, contributi e aiuti statali, semmai a rifiutarli. In questo sono più kennedyani degli eredi di Kennedy: non si chiedono che cosa può fare il paese per loro, si chiedono che cosa possono fare loro per il paese. E la cosa da fare è ridurre il deficit, azzerare il debito, mettere a posto i conti statali.

I Tea Party, però, hanno anche fatto perdere il Senato ai repubblicani e chissà quanti altri seggi alla Camera a causa di candidati inadeguati, incapaci, talvolta impresentabili. La loro intransigenza è spesso imbarazzante (il candidato governatore di New York, Carl Paladino, ieri ha minacciato l'eletto Andrew Cuomo con occhi spiritati e una mazza da baseball). La loro battaglia contro le élite a volte è comica (Christine O'Donnell giustificava le sue bollette non pagate con una chiamata in correità popolare: «Sono come voi»). La guerra alla classe dirigente va bene, come racconta il professor Angelo Codevilla in un pamphlet super polemico dal titolo The Ruling Class, ma questo non vuol dire che si debba prendere alla lettera l'antica battuta di William F. Buckley secondo cui piuttosto che farsi governare dal consiglio di facoltà di Harvard sarebbe meglio affidare il potere ai primi cinquanta nomi scelti a caso da un elenco del telefono.

La verità è che i Tea Party sono i primi nemici di se stessi. Sono la migliore garanzia per la rielezione di Barack Obama, se continuassero su questa strada d'intransigenza populista e improbabilità politica. Alla Casa Bianca dicono che alle presidenziali del 2012 purtroppo non saranno così fortunati da vedersela con Sarah Palin, ma la tentazione del movimento che ieri ha contribuito enormemente a cambiare la maggioranza americana è esattamente quella di non recedere, di non fare un passo indietro, di non cercare compromessi. Nel 1994, la purezza ideologica della rivoluzione conservatrice di Newt Gingrich si andò a schiantare contro un muro e assicurò un'agevole rielezione a Bill Clinton. Difficile immaginare un esito diverso questa volta.

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Tags Correlati: Andrew Cuomo | Angelo Codevilla | Barack Obama | Bill Clinton | Camera dei deputati | Christine O'Donnell | Harvard | Partiti politici | Sarah Palin | Senato | William F. Buckley

 

A gennaio capiremo se le roboanti dichiarazioni di campagna elettorale dei candidati dei Tea Party saranno confermate dai voti in aula o se la mollezza di Washington le avrà attenuate. I neo-eletti dei Tea Party sono solo una manciata al Senato e una quarantina alla Camera. Al momento è improbabile che la nuova leadership repubblicana al Congresso possa disporre dei loro voti per lavorare assieme al presidente Obama. Molti auguri per il 2012.
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