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Questo articolo è stato pubblicato il 18 novembre 2010 alle ore 08:09.
L'ultima modifica è del 18 novembre 2010 alle ore 09:01.
«Né verità né giustizia? No, ora la verità, la verità storica c'è». Alfredo Bazoli alterna amarezza personale e speranza civile, parlando con Il Sole 24 Ore all'indomani della sentenza della Corte d'Assise di Brescia sulla strage di Piazza della Loggia. Dopo 36 anni nessuna condanna: né per Carlo Maria Maggi, Maurizio Tramonte e Delfo Zorzi, gli attivisti di Ordine nuovo per i quali il pm aveva chiesto l'ergastolo; né per l'ex generale dei carabinieri Francesco Delfino, accusato di concorso, né per Pino Rauti, padre storico del movimentismo neo-fascista. Articolo 530, comma 2 del codice di procedura penale: formula dubitativa.
Il 28 maggio del 1974 la bomba "nera" falciò - assieme ad altre sette - la vita di Giulietta Banzi Bazoli, 34 anni. Era la mamma di Alfredo (che allora aveva quattro anni), Guido (sei) e Beatrice (otto e mezzo). Era un'insegnante di francese al liceo classico «Arnaldo», nel cuore di Brescia. Era la figlia di un dinastia imprenditoriale, un nome nella borghesia cittadina fin dall'inizio del '900. Non per caso era la moglie di Luigi Bazoli, nipote e omonimo di un fondatore dei Partito Popolare con De Gasperi e don Sturzo; e fratello di Giovanni, che nei primi anni 70 era un giovane giurista della Cattolica, non ancora il presidente di Intesa Sanpaolo. Quella mattina maledetta in Piazza della Loggia, però, la professoressa Banzi non stava passeggiando in centro con le amiche.
Era lì - vicino al cestino portarifiuti imbottito di esplosivo - come attivista di Avanguardia operaia e dirigente-fondatrice della Cgil Scuola: perché quella mattina erano stati i sindacati e il Comitato antifascista di Brescia a riempire la piazza «contro il terrorismo neofascista». Vicino a lei Alberto e Clementina Trebeschi, altri due insegnanti cigiellini. E poi Livia Bottardi Milani: scuola, Cgil, Aied, Circolo del cinema. E un professore di applicazioni tecniche originario di Foggia: Luigi Pinto, 25 anni. Infine: Vittorio Zambarda, un muratore comunista appena andato in pensione; l'ex partigiano Euplo Natali e Bartolomeo Talenti, un sindacalista della Flm.
Per la loro causa insanguinata, tre processi: il primo nel '79, portò alla condanna di alcuni esponenti dell'estrema destra bresciana e all'assassinio in carcere di Ermanno Buzzi da parte di Mario Tuti e Pierluigi Concutelli). Tre processi e «nessuna giustizia». «Non mi sono mai fatto nessuna illusione - dice Alfredo Bazoli, che oggi fa l'avvocato come il padre, il nonno e lo zio ed è consigliere comunale per il Pd a Brescia - Condanne per un reato così grave esigevano un quadro probatorio solidissimo e a quasi quarant'anni di distanza era arduo costruirlo». Però «ora gli italiani sanno che l'inquinamento delle prove, i depistaggi investigativi, le connivenze degli apparati dello stato con l'eversione neofascista erano parte di una vita democratica incompiuta e minacciata».