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Questo articolo è stato pubblicato il 18 novembre 2010 alle ore 08:01.
I milanesi che domenica scorsa hanno votato alle primarie cittadine del centro-sinistra potranno sentirsi oggi più o meno contenti di un risultato - la vittoria di Giuliano Pisapia - che nel frattempo ha mandato in crisi la dirigenza locale e nazionale del Pd. Ma di là dall'esito specifico delle consultazioni milanesi e dall'impatto di queste sugli equilibri interni del maggiore partito d'opposizione, è in generale lo strumento democratico delle primarie che deve essere valutato con un massimo d'attenzione: sia per i suoi meriti, sia per i suoi limiti.
I meriti, anzitutto. Che non sono pochi, sicché riuscirebbe improvvido archiviare la dinamica politica delle primarie di Milano (dopo quelle di Puglia dell'anno scorso) sotto l'etichetta liquidatoria di "vendolismo". Dimenticando un effetto comunque positivo della campagna delle ultime settimane: il competere per la carica di sfidante del sindaco Moratti di quattro personalità variamente espresse dalla società civile, anziché dai vertici di una classe politica che appare sempre più distante dalla base, autoreferenziale, indistinguibile dalla "casta".
Oggi, nei palazzi milanesi come in quelli romani del centro-sinistra, la politica di professione vive la vittoria di Pisapia come una Caporetto. E non a torto, dal suo punto di vista: l'elettorato del centro-sinistra ha scelto ancora una volta di esprimersi senza tenere in conto le raccomandazioni delle segreterie di partito. Ma l'opinione pubblica fatica a riconoscersi in una simile analisi. Perché non ha senso stracciarsi quotidianamente le vesti sul disastro di una classe politica ormai lontanissima dal paese reale, irraggiungibile, isolata nella sua bolla, e poi - quando gli elettori prendono la parola - rimpiangere il fatto che essi non obbediscano alle consegne provenienti dalla bolla stessa. Il merito delle primarie sta nel fatto di responsabilizzare la "gente". In Italia come altrove, si tratta di uno strumento di mobilitazione prezioso in tempi di disaffezione verso la politica, per non dire di crisi della democrazia rappresentativa.
Perciò la "casta" del centro-sinistra italiano è sempre pronta, in astratto, a vantare le virtù delle primarie. Salvo deprecarne i vizi non appena il responso delle urne incorona un candidato sgradito rispetto a quello gradito. E allora subito si mette in moto la macchina di delegittimazione del vincitore, sottolineandone l'eccessivo radicalismo e la presunta impossibilità di prevalere - al momento dello scontro elettorale con il candidato di centro-destra - nella conquista dei consensi di centro. Ma questo deludente gioco delle parti non discende soltanto dall'opportunismo (o dall'ipocrisia) dei dirigenti del Pd. Discende dall'interpretazione che il centro-sinistra ha scelto di dare allo strumento delle primarie. Le quali vengono per lo più organizzate come primarie del futuro cartello elettorale, non come primarie di un singolo partito. Il che significa che possono concorrere alla designazione del candidato - in sostanza - tutti quelli che vogliono, e non soltanto gli iscritti al Pd. Con l'effetto di promuovere anche candidature che il partito di maggioranza della coalizione "subisce" piuttosto che riconoscere.