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Questo articolo è stato pubblicato il 23 novembre 2010 alle ore 08:31.
L'ultima modifica è del 23 novembre 2010 alle ore 06:39.
Quando un monumento, una chiesa o un sito archeologico vengono iscritti nell'albo dei patrimoni dell'umanità, accade spesso che alcuni umani ritengano (equivocando) di potersene portare a casa qualche frammento. Nella disastrata Pompei, per esempio, due giornalisti hanno dimostrato che è facile impossessarsi delle tessere di parecchi mosaici antichi. Il che, oggi, è scandaloso. Ma non è del tutto nuovo, se è vero (ed è verissimo) che nei pavimenti di numerose ville romane, laziali e campane sono incastonati molti mosaici pregevolissimi, rubati o privatizzati.
All'inizio del secolo scorso circolavano molte stampe satiriche dove i turisti venivano effigiati nell'atto di trafugare capitelli, statue e addirittura la Torre di Pisa. Le sensibilità collettive e/o istituzionali, evidentemente, sono cambiate in meglio. Nei secoli bui come in quelli splendenti era del tutto normale costruire chiese romaniche sopra i templi imperiali. E soltanto qualche innocua pasquinata sbeffeggiava l'arroganza dei principi abituati a usare il Colosseo come cava per i loro palazzi.
In tempi più recenti, è ben noto che il mitico lord Elgin trasferì a Londra i fregi del Partenone, e che l'altrettanto mitico Axel Munthe tappezzò la sua villa anacaprese di reperti tiberiani, senza che nessuno osasse rimbrottarlo. Insomma: sono stati bravissimi i giornalisti che, a scopo dimostrativo, hanno rubato (e restituito) qualche mosaico di Pompei. Ma c'è di più, e posso darne testimonianza. Nella mia parrocchia (Santa Maria del Popolo, Roma) i ladri hanno asportato un bel numero di fregi bronzei dalle tombe che giacciono sul pavimento: gigli e unicorni, teschi e motti araldici. Lavoro arduo, in un luogo chiuso e (si suppone) sorvegliato.
Se consideriamo gli ampi spazi, ecco l'altra testimonianza. Nella seconda metà degli anni Settanta ero a Bangkok, in attesa di entrare in Cambogia per raccontare le imprese di Pol Pot e dei suoi khmer rossi. Nel frattempo frequentavo ambasciate e andavo a cena. Così incontrai un colto italiano che mi propose un affare: «Io le garantisco una scorta armata fino ad Angkor Wat (tempio cambogiano patrimonio dell'Umanità), e lei mi porta a Bangkok una dozzina di teste delle statue. A tagliarle ci penseranno i miei uomini. Ok?». Lo mandai al diavolo e lui si giustificò raccontandomi che, durante la guerra del Vietnam, un giornalista britannico aveva svaligiato il museo di Hué, l'antica capitale.