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Dublino non alzi le tasse

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Questo articolo è stato pubblicato il 24 novembre 2010 alle ore 07:45.
L'ultima modifica è del 24 novembre 2010 alle ore 06:39.

Dodici centesimi e mezzo ogni euro di profitto. È quanto le imprese pagano in tasse sui redditi in Irlanda. Se fossero in Francia ne pagherebbero trentaquattro, in Italia oltre trentuno, in Germania un po' meno di trenta.
Spendere i soldi dei propri elettori per aiutare gli elettori altrui non è un buon viatico per essere rieletti. Tanto più se il paese da sostenere, appunto l'Irlanda, è il campione nell'uso della leva fiscale per attrarre investimenti esteri e attività produttiva. La tigre celtica ha bisogno dei soldi europei per evitare il default sul proprio debito estero? In cambio, abbandoni la concorrenza fiscale, appunto la corsa al ribasso delle imposte sui redditi societari. Non è ancora chiaro se l'accordo sul pacchetto di aiuti negoziato nel week end scorso includerà questa condizione, ma certo la riduzione dell'aliquota è l'oggetto delle più fiere trattative, per gli Irlandesi il baluardo della sovranità nazionale.


E non è difficile capirli. Sulla capacità di attrarre investitori stranieri si è basata la trasformazione dell'economia irlandese, da un'agricoltura con un po' di industrie arretrate, con un livello di reddito pari all'80% della media dei paesi dell'euro nel 1993, ad un centro di produzione high tech, proiettato verso il mercato europeo, con un reddito al 134% della media dell'eurozona nel 2007.
Il nodo della questione è il seguente. Se aumentasse l'imposta societaria, gli investimenti che hanno fatto ricca l'Irlanda si sposterebbero nel resto d'Europa? E di conseguenza si ridurrebbero le entrate fiscali, rendendo di fatto vano l'effetto degli aiuti? Domanda interessante, su cui però non c'è risposta chiara. E proprio la mancanza di chiarezza rende incerto l'esito della partita.
Allora, la questione faremmo bene a dividerla in due. Il primo pezzo del ragionamento riguarda strettamente la geografia della base imponibile. Le grandi imprese multinazionali possono con relativa facilità trasferire i propri profitti da un paese all'altro, senza necessariamente spostare l'attività produttiva. Utilizzando la pratica dei prezzi di trasferimento, ossia, modificando i valori a cui avvengono le transazioni intraimpresa, è possibile anche cambiare la geografia dei profitti. Molte tra loro hanno trasferito in Irlanda la propria residenza fiscale essenzialmente con l'obiettivo di pagare globalmente meno tasse. Da questo punto di vista l'aumento delle aliquote irlandesi ridurrebbe l'appetibilità di queste pratiche redistribuendo la base imponibile delle multinazionali sugli altri paesi europei.

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Tags Correlati: Ben Lockwood | Francia | Investimenti delle imprese | Irlanda | Michael Devereux | Michela Redoano

 

Il secondo pezzo del ragionamento riguarda invece le attività produttive. Le multinazionali con base in Irlanda, hanno attività vere, hanno appunto costruito qui una piattaforma per la produzione di beni high tech da esportare nel resto dell'Europa. Ora quanto l'aumento delle aliquote determinerebbe la rilocalizzazione di queste attività produttive? Probabilmente poco. Come sostenuto da Michael Devereux, Ben Lockwood e Michela Redoano, in uno degli studi più accurati sugli effetti della tassazione sulla localizzazione delle multinazionali, le aliquote fiscali incidono molto sulla geografia delle basi imponibili, meno su quella delle attività produttive. Lo sviluppo irlandese è stato fondato sulla creazione di capacità produttiva vera, costruendo infrastrutture, riportando in patria ingegneri dispersi per il mondo, costituendo l'agenzia per l'attrazione degli investimenti più efficiente in Europa. Infatti, anche con l'esplodere della crisi finanziaria, i principali investitori sono rimasti e anzi nuove imprese hanno insediato qui i propri impianti. E per restare anche in tempi di crisi le aliquote basse non bastano. La bolla irlandese, soprattutto nell'immobiliare e nella finanza, ha certo avuto origine nel vortice di attività che si sono sviluppate dopo l'ingresso nell'Unione europea, ma lo zoccolo produttivo del paese rimane solido e la recessione implicitamente lo rende ancora più competitivo.


L'aumento delle aliquote, dunque, potrebbe riallocare un po'di risorse fiscali, ma non determinare un riposizionamento in Europa delle imprese multinazionali. Prova ne è che la destinazione più apprezzata dagli investitori esteri nel nocciolo duro dell'Europa continentale è la Francia, un paese non certo dalle tasse basse. Pretendere questa misura in cambio degli aiuti è dunque più che altro demagogia, un modo per rassicurare elettori molto nervosi. Ma una demagogia che rischia di essere costosa per l'Irlanda e di rendere vano il tentativo di rimettere le poste fiscali in ordine.
Infine, un'ultima considerazione. Abbiamo imparato quest'anno come non sia possibile preservare la moneta unica senza attivare degli strumenti di redistribuzione di risorse fiscali verso paesi in difficoltà e a rischio di default. Il fondo di stabilizzazione europea ha precisamente questa funzione. Ora, chiedere l'innalzamento delle aliquote irlandesi in cambio degli aiuti non favorirebbe il necessario aggiustamento fiscale e avrebbe il solo risultato di togliere con una mano quello che si dà con l'altra. In sostanza si attiverebbe un meccanismo compensativo inutile, che renderebbe più difficile raggiungere l'unico obiettivo essenziale: disinnescare la mina irlandese.
barba@unimi.it

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