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Questo articolo è stato pubblicato il 28 novembre 2010 alle ore 13:50.
L'ultima modifica è del 28 novembre 2010 alle ore 15:13.
Beati monoculi in terra caecorum, dicevano i nostri saggi antenati. E che gli orbi non se la cavino poi male in un paese di ciechi ci viene confermato dalle ultime vicende relative alle professioni liberali in Italia.
Negli ultimi giorni abbiamo assistito infatti a qualche lampo di cecità da parte dei giuristi. Gli avvocati, ad esempio, hanno celebrato alle loro assise l'approvazione della controriforma della professione forense al Senato accusando i "poteri forti" di fomentare l'opposizione alla legittima aspirazione di avere tariffe minime, chiusura della professione e divieto di attrarre investitori finanziari. Sono probabilmente sfuggite le ben più indignate reazioni dei consumatori, dei giovani avvocati e dei praticanti, poteri deboli per eccellenza, nonché dei giornali anche più simpatetici col governo, i cui editorialisti si sono immedesimati nella parte di clienti.
I notai, anche loro a congresso, sembrano affermare che la crisi finanziaria è stata provocata da un eccesso di "liberalismo" e soprattutto dalla mancata autenticazione da parte di un notaio dei mutui subprime! Un po' scherzo, ma non troppo. Peraltro, mentre i notai sono felicissimi quando si affidano loro nuove competenze, come la possibilità di sostituire i giudici nelle separazioni consensuali, s'inalberano quando si pensa che alcune delle loro funzioni potrebbero benissimo essere svolte perlomeno da altri professionisti e che comunque il loro numero dovrebbe aumentare notevolmente (sempre che riescano a organizzare i concorsi): «Pubblici ufficiali siamo!».
Ecco quindi che i commercialisti svettano. Sotto la guida dinamica del loro presidente Claudio Siciliotti, i professionisti di contabilità e bilancio hanno cominciato ad abbandonare le posizioni più conservatrici, dimostrando flessibilità su argomenti quali le tariffe e la costituzione delle società di capitali e in più si sono dati la missione di porsi come interlocutori "tecnici" del legislatore, proponendo disegni di legge spesso modernizzatori. Ecco, appunto, spesso.
Dopo averli tanto lodati, non posso invero esimermi dal criticare la loro proposta tesa a tassare di più le imprese che delocalizzano a favore di quelle che assumono in Italia. Il Consiglio nazionale della categoria si è infatti espresso così: «Bisogna arrivare a un modello di tassazione in cui, a parità di reddito, le imprese che danno occupazione sul territorio nazionale pagano meno di quelle che non ne danno o che delocalizzano».