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Chi taglia vince a patto che spieghi con chiarezza la necessità del rigore ai propri elettori

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Questo articolo è stato pubblicato il 01 dicembre 2010 alle ore 07:53.

La primavera scorsa, quando il governo greco annunciò il piano di aggiustamento fiscale, il paese pareva sull'orlo del collasso politico. Dimostrazioni, scioperi anche violenze e disordini. Pareva che i greci rifiutassero la medicina del rigore. Qualche settimana fa il governo in carica ha vinto le elezioni municipali, chiaramente identificate come un referendum sulla politica fiscale nazionale, che fra l'altro cominciava a farsi sentire sulla pelle degli elettori.

È un'eccezione alla regola secondo cui i governi che riducono i deficit pubblici, e soprattutto quando lo fanno con decisione draconiana, perdono sistematicamente alle urne? Non esattamente, perché la "regola" non è tale, ovvero non è una regolarità statistica. In altre parole, non è vero che sistematicamente i governi fiscalmente rigorosi perdono le elezioni. D'altro canto non è vero che gli elettori sempre e comunque amino governi che creano deficit di bilancio.

Lo dimostra la storia degli ultimi decenni di aggiustamenti fiscali nei paesi Ocse, studiati da molti, compresi, più recentemente, Dorian Carloni, Giampaolo Lecce e il sottoscritto. Abbiamo esaminato tutti gli episodi di riduzioni anche drastiche dei deficit pubblici dal 1975 a oggi e abbiamo rilevato come spesso i governi che li hanno fatti siano stati rieletti con facilità, per esempio in Irlanda e Danimarca alla fine degli anni 80, in Canada e Svezia negli anni 90. In Inghilterra il piano draconiano di Osborne è stato accolto con flemmatica calma dagli inglesi. Ciò ovviamente non significa che gli elettori amino tagli di spesa o aumenti d'imposte.

Significa però che soprattutto in periodi di crisi, quando è chiaro che non vi sono alternative, governi che spieghino con chiarezza la necessità del rigore ai propri elettori non sono puniti alle urne. Una percezione di "equità" nei tagli sicuramente aiuta. Tutto ciò fa ben sperare per l'inevitabile periodo di rigore fiscale necessario in molti paesi europei.

La fase di rientro dai deficit non necessariamente si accompagnerà sempre e comunque con instabilità e fragilità elettorale per i governi più responsabili, che quindi potrebbero essere incoraggiati a proseguire nel rigore. D'altro canto, però, la politica nelle democrazie non è solo il conteggio dei voti ogni quattro o cinque anni. I giochi si svolgono anche dietro le quinte dove lobby di vario genere influenzano i politici con contributi e favori; la si gioca tra enti locali spendaccioni e governi centrali che li devono finanziare; la si gioca ai tavoli della concertazione sindacale, dove spesso i dipendenti pubblici riescono a mantenere aumenti salariali superiori a quelli del settore privato e dove riforme pensionistiche inevitabili sono ostacolate; la si fa nelle strade, dove chi è più organizzato e ha la voce più grossa si fa sentire di più.

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Tags Correlati: Dorian Carloni | Elezioni | Giampaolo Lecce | Ocse | Osborne

 

Nulla di cui scandalizzarsi, si badi, fa parte della democrazia e dei diritti sanciti dalle Costituzioni. Ma politici lungimiranti non devono dimenticare che la volontà dell'elettore medio si esprime alle urne e gli interessi delle minoranze vanno difesi, ma non possono far dimenticare gli interessi della collettività. E ciò vale soprattutto quando il paese ha bisogno di cure fiscali gravose nel breve periodo, ma necessarie e benefiche nel medio e lungo periodo. L'alternativa è disastrosa, come gli eventi di queste settimane dimostrano.

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