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Questo articolo è stato pubblicato il 02 dicembre 2010 alle ore 07:59.
L'ultima modifica è del 02 dicembre 2010 alle ore 08:22.
Nella tormentata marcia di avvicinamento al 14 dicembre, ieri Berlusconi ha segnato un punto. Il secondo, per essere precisi, dopo l'approvazione della riforma Gelmini in una Camera assediata dai dimostranti. L'incontro con Hillary Clinton e la patente ricevuta di «migliore amico dell'America» può sembrare un atto dovuto da parte del segretario di Stato. Ma tant'è.
L'uomo più colpito sul piano personale dalle rivelazioni di Wikileaks, il governante europeo messo sotto accusa per i suoi legami poco trasparenti con Putin, ha ottenuto un riconoscimento che ha un solo significato: gli Stati Uniti non hanno alcun desiderio di incrinare il rapporto politico con l'Italia, il paese che mantiene una significativa presenza militare a Kabul e che è sempre stato in questi anni un alleato affidabile. Tra l'altro, la dolorosa contabilità dei caduti, sommando l'Iraq all'Afghanistan, offre un dato sorprendente: l'Italia è al quarto posto per numero di perdite subìte dopo Usa, Gran Bretagna e Canada. Ossia dopo i tre paesi della comunità anglosassone. Anche questo elemento pesa nella relazione complessiva tra Roma e Washington. Il resto lo fa il pragmatismo tipico degli Stati Uniti, specie in un un'ora non brillante dell'amministrazione Obama.
Detto questo, è evidente che il rapporto fra Berlusconi e l'attuale Casa Bianca non è paragonabile nemmeno lontanamente a quello che si era stabilito negli anni di Bush. Allora c'era una vera sintonia, forse anche umana. Oggi c'è un mero calcolo politico-diplomatico. L'America non può permettersi di essere risucchiata nelle manovre della politica italiana; tanto meno può farsi strumentalizzare. Definire in pubblico Berlusconi «il nostro miglior amico» è un contributo alla stabilità più che una scelta di campo a favore del presidente del Consiglio. Sul conto del quale il giudizio di Obama e della Clinton, a quanto se ne sa, continua a essere poco lusinghiero.
Ma al premier questo aspetto interessa poco. Quel che conta per lui, in vista del 14, è che il tassello internazionale sia andato a posto. È una boccata d'ossigeno. A suo avviso nessuno potrà sostenere adesso che gli Stati Uniti guardano con simpatia a Fini come possibile leader di una nuova destra moderata italiana. In realtà sappiamo che le cose sono più complicate. Comunque vada il voto del 14, l'incertezza regna sovrana. Gli anti-Berlusconi, da Fini a Casini a Bersani, non dispongono oggi di una maggioranza alternativa che sia credibile. Se fossimo in Germania, dove la sfiducia deve essere «costruttiva», le mozioni parlamentari non sarebbero messe ai voti.