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Un debito che rafforza l'Unione

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Questo articolo è stato pubblicato il 08 dicembre 2010 alle ore 08:58.
L'ultima modifica è del 08 dicembre 2010 alle ore 09:00.

Al di là dei risvolti tecnici (da approfondire), la proposta a doppia firma del ministro dell'Economia Giulio Tremonti e del presidente dell'Eurogruppo Jean-Claude Juncker per utilizzare gli Eurobond per frenare la crisi dei debiti sovrani ha un merito grande. Quello di mettere in chiaro il passaggio storico che l'Europa si trova ad affrontare, come dimostra la portata politica di questo progetto, il dibattito che ne è scaturito e il netto "no" che le è stato opposto dal paese-guida, cioè la Germania di Angela Merkel.


Non c'è nulla di estemporaneo nell'idea di giocare la carta degli E-bond. Primo, a voler rincorrere la memoria, perché quasi vent'anni fa, ai tempi della firma del Trattato di Maastricht, ricordiamo Guido Carli ragionare del problema di come affrontare la questione del debito dei paesi membri considerando l'ipotesi della nozione di "debito comune".
Secondo, perché degli Eurobond si discusse negli anni Novanta grazie all'impegno di Jacques Delors e del suo Libro bianco (e in Italia di Romano Prodi), quando si sviluppò l'idea di di emettere questo strumento per finanziare pro-crescita le grandi opere infrastrutturali. Terzo, perché questo tema è stato (e rimane) al centro, in Italia, di un dibattito accademico di alto livello, cui non fa purtroppo riscontro un altrettanto serrato confronto politico, fatte le debite eccezioni nel centrodestra e nel centrosinistra e fermo restando lo storico impegno politico dei Radicali.
La Grande Crisi, la peggiore dal 1929, e molti passi incerti dell'Europa, hanno fatto il resto. Nel senso che la deflagrazione dei debiti sovrani, a partire dal caso greco, si è scaricata sull'euro, fino a metterlo in pericolo, («è a rischio anche l'Ue», ha aggiunto il presidente dell'Unione Van Rompuy) e ha riaperto un fronte di conflittualità tra i paesi membri che sarebbe sciocco sottovalutare.
I problemi vanno dunque affrontati per quelli che sono, piacciano o no. L'Europa ha una moneta unica ma non ha l'unione politica. Viaggia a due velocità, di qua i paesi più indebitati e a più bassa crescita, di là la Germania che procede a passo di carica. Divergono quindi anche gli interessi. L'arma della svalutazione competitiva non esiste più e i riaggiustamenti richiedono sforzi imponenti, anche in termini sociali. Al contrario della Federal Riserve americana, la Banca centrale europea ha un solo mandato: tenere sotto controllo l'inflazione.

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Tags Correlati: Angela Merkel | Bce | Berlino | Charles Kupchan | Debito pubblico | Federal Riserve | Giulio Tremonti | Guido Carli | Italia | Jacques Delors | Jean-Claude Juncker | Romano Prodi | Stati Membri | Unione Van Rompuy

 


Nessuna meraviglia se ci troviamo di fronte a una situazione esplosiva. E nessuna meraviglia se torna d'attualità strettissima l'analisi di un osservatore americano come Charles Kupchan svolta qualche mese fa sul Sole 24 Ore (1° settembre) e sul Washington Post. I malanni economici sono forti, scriveva Kupchan, ma la malattia più seria è questa: da Londra a Berlino a Varsavia, «l'Europa sta assistendo ad una rinazionalizzazione della vita pubblica, con gli stati che fanno di tutto per riprendersi quella sovranità che un tempo erano disposti a sacrificare per l'obiettivo di un ideale collettivo».
La proposta Tremonti-Juncker tiene conto delle difficoltà strutturali, e oggettive, in cui si dibatte l'Europa e prova ad alzare la scommessa, tratteggiando uno strumento a presidio dell'irreversibilità dell'euro, capace di iniettare una grande massa di liquidità e di mettere «un freno allo sconvolgimento sui mercati del debito pubblico e bloccare le ripercussioni negative sui mercati nazionali». Il tutto, da mettere in cantiere in fretta, anche in chiave antispeculativa.
Si tratta prima di tutto di una proposta politica tesa a rafforzare l'Unione, costruendo sotto l'euro una base più solida e condivisa, evitando viaggi a diverse velocità e restringendo quanto più possibile la divergenza degli interessi politici, che poi sono i punti d'attacco della speculazione.


È chiaro che alla Germania del "miracolo", uscita fortissima dalla riunificazione e impegnata per Costituzione a una marcia durissima per contenere deficit (e debito) questa proposta non va giù. Fate come noi, dice ai paesi in crisi da debito pubblico. Impegnatevi, non pensate a meccanismi sovranazionali che si traducono in un trasferimento di risorse che finiranno per essere pagate dai contribuenti tedeschi. Vogliamo sostenere l'euro, la moneta unica è nostro interesse, ma noi abbiamo già dato e diciamo no.
In quel "ma", comprensibile se s'inforcano gli occhiali della lettura politica interna tedesca (il consenso non è un optional dappertutto), c'è però tutto il senso della sfida che una leadership granitica come quella di Berlino potrebbe e dovrebbe raccogliere. Se la salvezza dell'euro è nell'interesse della Germania, fino a che punto il paese più forte d'Europa può girarsi dall'altra parte?

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