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Concorrenza di rigore

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Questo articolo è stato pubblicato il 09 dicembre 2010 alle ore 06:39.

Nessuno si era davvero illuso. È sempre stato evidente che, se non altro nel breve periodo, le politiche di austerità di Eurolandia avrebbero frenato la crescita. A meno di non adottare una radicale politica di concorrenza.
Il rigore chiede oggi un contrappeso: è un costo inevitabile - per evitare disastri peggiori come il default e magari la fuoriuscita dall'euro - e pesante, aggravato dal fatto che la politica monetaria non può ulteriormente tagliare i tassi per compensarne il peso e l'euro resta piuttosto forte. Crea una situazione tale da far sorgere continuamente un interrogativo: quando il troppo è troppo? O, per essere più precisi: c'è il necessario equilibrio tra le ragioni del rigore e quelle della crescita?
È vero che la teoria economica non aiuta molto a capire quali siano gli effetti della politica fiscale. Le ricerche sono relativamente poche, contraddittorie e persino controintuitive: non mancano - sono anzi numerosi - episodi di austerità associati a incrementi del Pil. Un effetto frenante, però, sembra ineludibile, se non compensato da altre misure. «Un riassunto dei modelli dell'Fmi mostra che un irrigidimento della politica fiscale di un punto di Pil riduce la domanda domestica di un punto percentuale il secondo anno; c'è però una compensazione data da un aumento delle esportazioni nette e l'effetto complessivo è quello di frenare il Pil di circa 0,5 punti», dice Gerard Minack di Morgan Stanley (che pure parla di un punto di riferimento autorevole, non di un'indicazione generalizzabile a tutti i casi).
Il rischio di strafare è quindi concreto. Anche gli investitori, beneficiari immediati delle politiche di austerità, ne sono consapevoli e le perplessità emergono prepotenti. «La politica fiscale deve ora navigare tra la Scilla dello stress sui titoli sovrani e la Cariddi di un rigore prematuro», dice Minack, in una nota intitolata non a caso «Un guaio se lo fate - o non lo fate».
L'Irlanda appare subito come un caso emblematico. Perché la crisi fiscale qui non è nata da politiche populiste o da errati stimoli alla crescita, ma da interventi per dare tutela e garanzia proprio alle banche. «L'austerità è andata troppo oltre?», si chiede, a proposito di Dublino, Vladimir Pillonca di Société Générale in una recente analisi. La sua paura è espressa con una "formula": «Troppa austerità = rischi di deflazione = rischi più alti di default e più stress per il settore bancario». In Irlanda il rischio passa attraverso un'ulteriore riduzione dei prezzi delle case - quella ricchezza delle famiglie di cui si parla molto, dimenticando che può cambiare valore anche bruscamente - che ridurrebbe sia le garanzie dei mutui bancari sia i consumi, in una nuova spirale deflazionistica che renderebbe davvero arduo ripagare i debiti.

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Tags Correlati: Antonio Garcia Pascual | Bank of America Merrill Lynch | Concorrenza | Europa | Fmi | Gerard Minack | Harvard | Piero Ghezzi | Silvia Ardagna | Vladimir Pillonca

 

Qua e là emergono preoccupazioni analoghe per altri paesi. Pur apprezzando il rigore della Grecia, Antonio Garcia Pascual e Piero Ghezzi di Barclays, anche se in modo sfumato, non possono fare a meno di ammettere che qui «ci sono ancora molte incognite sia sulla sua capacità di continuare ad applicare la manovra di aggiustamento fiscale sia sulla sua capacità di crescere. Fino a quando questi problemi non saranno chiariti, non è possibile dare una risposta categorica all'interrogativo sulla solvibilità, o meno, del paese». Per Atene, secondo Barclays, basta immaginare una crescita del Pil nominale (non quello reale a cui si fa abitualmente riferimento) del 3,5%, un rendimento medio nominale dei titoli di stato del 6,5% e un surplus primario (al netto degli interessi) del 4% per 35 anni per ritrovarsi con un'esplosione del debito pubblico. Il risanamento greco, spiegano allora, «cammina sulla lama di un coltello». Quando occorre conciliare crescita, surplus primario, un cambio fisso e una politica monetaria decisa altrove e comunque "bloccata", trovare una via d'uscita sembra quasi impossibile.
La situazione è resa ancora più delicata dal fatto che le politiche di austerità sono sincronizzate, in Eurolandia. L'effetto sarà «una minore domanda domestica in molte economie allo stesso tempo. Questa simultaneità significa che questi shock interni si propagheranno per tutta Eurolandia attraverso gli stretti legami commerciali», conclude Pillonca, che non parla, qui, di contagio finanziario, ma di una catena di ripercussioni reali.
Sono problemi che presto interesseranno tutti i paesi avanzati: gli effetti della sincronizzazione del rigore saranno ulteriormente amplificati. «Il più grande numero di paesi che hanno simultaneamente applicato il rigore fiscale negli ultimi trent'anni è stato di dieci. La maggior parte di esempi storici di manovra è stata di meno dell'1% del Pil: le dimensioni del freno fiscale programmato per l'anno prossimo, sia in termini di numero di paesi, sia in termini di severità del rigore, non hanno precedenti», dice Minack.
Una situazione disperata? Non tutti lo pensano. Non chi parla di «austerità intelligente», esaminata - fra gli altri - da Silvia Ardagna, docente ad Harvard, in lavori accademici e "di mercato" (per Bank of America Merrill Lynch). Le indicazioni che emergono - meno spese, tagli dei tassi, svalutazione - non sono però tutte applicabili. Se non si vuol tornare a far ricorso alla droga del debito, con l'inevitabile overdose, resta allora una sola strada: creare un ambiente che preveda concorrenza a tutti i livelli e permetta innovazione, due ingredienti fondamentali della crescita. È una ricetta antica, anche un po' radicale, che governi, aziende e sindacati (e qualche economista) sono sempre restii ad accettare; e che andrebbe seguita "simultaneamente". Proprio come il rigore.
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