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Draghi: l'euro non si tocca ma l'autonomia della Bce è a rischio se aumentano gli acquisti di bond statali

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Questo articolo è stato pubblicato il 10 dicembre 2010 alle ore 09:05.
L'ultima modifica è del 10 dicembre 2010 alle ore 09:05.

Mario Draghi tutto questo l'ha già vissuto. All'inizio degli anni 90 il suo paese, l'Italia, era in piena crisi. Il deficit dello stato era schizzato oltre il 10% del Pil, l'inflazione era quasi in doppia cifra e il terrorismo interno rappresentava ancora una minaccia. «Era una situazione sicuramente peggiore di quello che ci si può immaginare oggi», ricorda. Draghi, che all'epoca era direttore generale del ministero del Tesoro, contribuì a mettere in pratica un rigoroso piano di risanamento dei conti pubblici elaborato dal governo di Giuliano Amato, che portò al programma di privatizzazione più ampio della storia d'Europa. L'Italia riuscì a evitare una catastrofe.

Vent'anni dopo, il messaggio di Draghi è che con l'approccio giusto, focalizzato su un'azione aggressiva da parte dei governi nazionali, si può sconfiggere anche questa crisi drammatica che sta colpendo l'eurozona. «L'euro non è in discussione – insiste in apertura dell'intervista al Financial Times – l'euro è uno dei pilastri dell'integrazione economica europea, e tutti i paesi, dal primo all'ultimo, ne hanno ricavato grandi benefici».

Le opinioni di Draghi sono importanti non soltanto perché è uno dei membri più influenti del consiglio direttivo della Banca centrale europea, ma anche perché presiede il Financial stability board, un panel di regolatori globali incaricato di ridisegnare le regole del sistema finanziario, e perché è visto come un possibile successore di Jean-Claude Trichet, il cui mandato alla guida della Bce scade il prossimo ottobre. Nel giro di un anno, Draghi potrebbe ritrovarsi a essere uno dei personaggi di maggiori rilievo della politica economica mondiale.

In Europa, la crisi di quest'anno ha messo a nudo i difetti di funzionamento di un'unione monetaria a 16 paesi. I problemi sono stati esacerbati dai litigi e dai ritardi nel lancio dei piani di salvataggio per paesi come la Grecia e l'Irlanda, e da una certa incapacità di comunicazione. Angela Merkel, la cancelliera tedesca, ha fatto infuriare gli altri leader dell'eurozona insistendo a voler discutere dei meccanismi per costringere anche gli investitori privati ad accollarsi il peso dei futuri salvataggi di paesi Ue, ottenendo come unico risultato di far innervosire ancora di più i mercati. I costi del credito per Irlanda e Portogallo sono schizzati alle stelle; gli investitori sono inquieti per la stabilità finanziaria della Spagna, e perfino dell'Italia.

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Ma Draghi fa eco alle parole di Trichet, dicendo che «la situazione generale dei conti pubblici è più solida che in altre parti del mondo» e che i mercati dei titoli di stato complessivamente funzionano bene. «Stiamo parlando di problemi all'interno di singoli paesi, non di problemi dell'eurozona nel suo complesso». Anche all'interno del vertice della Bce, che ha ereditato l'istinto alla cautela a tutti i costi della Bundesbank, la posizione di Draghi è prudente. Il governatore della Banca d'Italia sembra convinto che le possibilità di risolvere la crisi sul lungo termine dipendono dalla capacità di affrontare le cause di fondo, più che dai meccanismi di salvataggio. All'inizio degli anni 90, sottolinea, l'Italia doveva emettere circa 60 miliardi di dollari al mese di titoli di stato, nuovi o per rifinanziare il debito esistente, cifre che fanno sembrare trascurabili i problemi attuali dei paesi dell'eurozona. «Non andammo a chiedere aiuto all'Fmi e non ci fu nessun intervento di salvataggio da parte della Ue».

Certo, l'Italia fu aiutata dagli effetti di una svalutazione della moneta, che spinse in alto le esportazioni, ma questo contribuì solo in parte. La flessibilità del cambio ha anche l'effetto di «far salire significativamente lo spread perché si deve tener conto dell'incertezza sul cambio».

Questa settimana Giulio Tremonti e il primo ministro lussemburghese Jean-Claude Juncker hanno proposto un altro meccanismo, l'emissione di titoli di stato comuni a tutta l'area euro per risolvere la crisi attuale. Draghi dice che un'idea del genere, oltre a presentare problemi di natura giuridica, non risolverebbe le cause di fondo della crisi. «La mia esperienza personale mi dice che un paese è in grado di uscire efficacemente da una crisi senza alcun aiuto». E aggiunge: «È difficile pensare che un meccanismo possa correggere squilibri strutturali di fondo, che devono essere affrontati a livello nazionale». Quando i governi mostrano sufficiente determinazione nel risanare i conti pubblici, sostiene Draghi, i mercati finanziari ne tengono conto. «Se la comunicazione è efficace, se l'azione politica è solida e se l'impegno è percepito come persistente, i mercati sicuramente lo accoglieranno positivamente».

Considerando la sua insistenza sul fatto che l'iniziativa spetta ai governi, c'è poco da sorprendersi che Draghi veda un ruolo limitato per la Bce. Le mosse della Bce sono state molto contestate quest'anno, specialmente in Germania. A maggio, quando la crisi dell'euro era nella sua fase più acuta, la Bce ha infranto un tabù ed è intervenuta sui mercati dei titoli di stato nel tentativo di calmare la situazione. Negli ultimi giorni, ha incrementato gli acquisti di questi bond, nonostante gli ammonimenti di Axel Weber, il presidente della Bundesbank, sui rischi che questa confusione tra politica monetaria e politica di bilancio può comportare per la credibilità della Bce nella lotta all'inflazione.
Draghi dice che «bisogna fare molta attenzione a stabilire le condizioni per effettuare questi acquisti, perché sono perfettamente consapevole che esiste il rischio concreto di passare il segno e perdere tutto quello che abbiamo, perdere l'indipendenza e sostanzialmente violare il trattato europeo».

La Bce non sta prestando soldi ai governi, sta correggendo mercati finanziari mal funzionanti, dice Draghi. Forse non è un caso, visto che avrà bisogno del sostegno di Berlino se vuole succedere a Trichet, che il governatore della Banca d'Italia citi il tedesco Otmar Issing, l'intransigente ex capo economista della Bce, sul fatto che gli spread fra i tassi di interesse sui titoli di stato dei governi dell'eurozona dovrebbero riflettere le diverse situazioni dei conti pubblici. Prima della crisi gli investitori facevano poca differenza fra i titoli di stato dell'eurozona, trattando di fatto quasi allo stesso modo la Germania e la Grecia.

La situazione è cambiata drammaticamente. Il problema è che «questi processi di "riprezzamento" in realtà non avvengono in modo armonioso e ordinato. Spesso c'è un incremento sproporzionato. Queste oscillazioni eccessive potrebbero causare danni permanenti se non vengono contrastate». Avere mercati dei titoli di stato ben funzionanti è fondamentale perché servono a garantire un corretto trasferimento delle decisioni della Bce sui tassi di interesse all'economia in generale. Comprare titoli di stato, come sta facendo ora la Bce, non ha lo scopo di garantire finanziamenti a buon mercato ai governi, ma di mantenere sotto controllo le dinamiche della politica dei tassi, e di garantire il buon funzionamento dei mercati. «Quando la Bce opera su questi mercati non fa finanziamento monetario, fa politica monetaria – dice, ma poi sottolinea – quello che fa la Bce è temporaneo e strettamente legato al cattivo funzionamento di certi mercati».

Seguendo un ragionamento analogo, Draghi afferma che la Bce deve trovare un modo per risolvere il problema delle banche "drogate", cioè quegli istituti di credito che dal momento del fallimento della banca d'affari americana Lehman Brothers, nel settembre del 2008, fanno affidamento sulla liquidità illimitata garantita dalla Bce. Non è chiaro quante siano queste banche "drogate" che non riescono a trovare fonti di approvvigionamento alternative, ma i dati sull'utilizzo della liquidità della Bce sembrano indicare che a Francoforte sono molto preoccupati.

«Prima o poi», spiega Draghi, la Bce dovrà tornare al sistema delle aste per la liquidità. Il rischio è che queste banche a quel punto facciano salire artificiosamente i tassi di interesse perché hanno un bisogno disperato di fondi, interferendo nuovamente con la politica monetaria. Gli analisti hanno suggerito un sistema di liquidità a due livelli, con misure particolari per le banche in difficoltà. Senza entrare nei particolari, Draghi dice che sono in discussione «proposte concrete». «Vogliamo essere assolutamente certi che la nostra politica monetaria non sia inquinata dalle richieste delle banche in questione».

Come presidente del Financial stability board (e in precedenza alto dirigente della banca d'affari americana Goldman Sachs, dal 2002 al 2005), Draghi conosce benissimo il sistema bancario. A livello globale, dice, «Dobbiamo avere una trasformazione culturale». È un processo già iniziato, «ma deve continuare». In passato c'è stato un «grave squilibrio degli incentivi» e un'errata valutazione dei rischi insiti nei prodotti creditizi, con le persone responsabili di questi errori «che si autoretribuivano in modo eccessivamente munifico».

Per quanto riguarda l'eurozona, durante l'intervista prolungatasi per un'ora, Draghi ha insistito ripetutamente sull'iniziativa dei governi e ha detto che sarebbe favorevole a una maggiore integrazione dei bilanci, come complemento all'unione monetaria. Ma ha aggiunto di non sapere se sarà possibile. «Si comincia con un gruppo di paesi che decidono di avere un'unica moneta, e che pensano che tutto il resto possa rimanere così com'è. Poi scoprono che non può rimanere così com'è, e allora stabiliscono delle regole e cercano di vincolarsi a un comportamento uniforme attraverso di esse. Poi, se scoprono che le regole non bastano, devono trovare un modo per rafforzare il coordinamento politico, e magari introdurre nuove regole per vincolarsi ancora di più».

La Ue sta facendo «progressi positivi» in questa direzione, dice, ma la destinazione ultima sarà decisa dai politici, non dai governatori delle banche centrali. «Gli stati saranno disposti a rinunciare alla sovranità nazionale sui loro bilanci? Gli stati saranno pronti a interessarsi dei problemi di altri stati, e tassare i loro cittadini per risolvere questi problemi?». Per adesso, la Ue prosegue faticosamente nel tentativo di contenere la crisi finanziaria. Draghi, però, resta cautamente ottimista. Trae ispirazione dal suo percorso italiano vent'anni fa e dall'esperienza tedesca seguita al lancio dell'unione monetaria nel 1999, che ha lasciato il paese con un tasso di cambio sopravvalutato. «La recente ristrutturazione della Germania e la sua reazione alla crisi rappresentano un modello per varie ragioni».

Ma data la gravità della crisi nell'eurozona e l'entità dei problemi fiscali ed economici che devono affrontare paesi come la Grecia, è ragionevole aspettarsi una svolta di tipo tedesco in grado di cambiare l'umore sui mercati finanziari? Anche in questo caso, Draghi guarda indietro alle turbolenze dei primi anni 90. «In tutte queste crisi, a una prima occhiata si vede un profilo finanziario che sembra molto difficile da gestire. L'attenzione si concentra sulle scadenze, gli spread, i tassi d'interesse e altri fattori di questo tipo. A mio avviso, la realtà dimostra che se si concede un tempo sufficiente, pretendendo una reazione nazionale seria e rigorosa, qualsiasi paese può superare la crisi e vincere la sfida. L'idea che si possa risolvere rapidamente una crisi finanziaria per me non ha senso».

L'altra realtà è che, a tre anni e mezzo dall'esplosione della crisi finanziaria, bisogna prepararsi ad altri shock. Si sono combattute le battaglie, ma è troppo presto per una cessazione delle ostilità e, a maggior ragione, per una dichiarazione di vittoria. Lo dice anche Draghi: «È una guerra lunga».

Traduzione di Fabio Galimberti e Francesca Marchei
© THE FINANCIAL TIMES LIMITED 2010

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