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Commenti e Inchieste

Tasse ai ricchi per creare lavoro

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Questo articolo è stato pubblicato il 11 dicembre 2010 alle ore 09:09.
L'ultima modifica è del 11 dicembre 2010 alle ore 08:08.

Questa non è una ripresa. L'emergenza lavoro in Usa continua ed è necessario intervenire. Le imprese private hanno creato 50mila posti di lavoro in novembre, il numero più basso da gennaio. Oltre 15 milioni di americani risultano disoccupati, senza contare quelli che stanno lavorando part-time - ma preferirebbero lavorare a tempo pieno - o la cifra record di 1,3 milioni di persone talmente scoraggiate che il lavoro non lo cercano neanche più. Soltanto il 5% dei laureati al momento è disoccupato, mentre nel resto della popolazione attiva, oltre il 20% è senza lavoro.


Bisogna essere chiari: il vero problema è la scarsa domanda di lavoratori. Esistono soltanto quattro fonti di domanda. Quella principale è costituita dai consumatori americani, cui è riconducibile circa il 70% dell'attività economica. Ma la vasta classe media e operaia statunitense non può né vuole consumare abbastanza per ridare lavoro a tutti. Su questi consumatori grava tuttora una quantità di debiti enorme, e quand'anche riuscissero a estinguerli, i tempi degli acquisti sfrenati sono solo un ricordo.
La seconda fonte di domanda interna è il mondo delle imprese. Ma gli imprenditori non assumono altri lavoratori senza un numero maggiore di clienti. Gli economisti dell'offerta sostengono che una riduzione delle imposte societarie indurrebbe le aziende a riavviare le assunzioni, ma le società dispongono di quasi 3mila miliardi di dollari in liquidità. Per dare lavoro a più americani non hanno bisogno di sgravi fiscali, ma di più clienti americani.
La terza fonte di domanda interna è costituita dalle esportazioni nette. Che però sono ferme. Sebbene Cina, India e Brasile stiano acquistando beni e servizi da società americane, dando impulso ai profitti statunitensi, quelle stesse società americane producono gran parte di ciò che vendono direttamente in quei paesi. Al momento, General Motors vende più automobili in Cina che negli Usa, e le produce lì.


Resta così la quarta fonte di domanda interna: il governo. Ma è ampiamente insufficiente a colmare il divario. Di più, i governi statali e locali sono al verde e continuano a tagliare le spese e ad aumentare le imposte, al ritmo di oltre 110 miliardi di dollari quest'anno. Il tanto deprecato stimolo del governo federale è praticamente esaurito (quasi tutti gli economisti sono concordi nel ritenere che abbia salvato più di tre milioni di posti di lavoro).

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Tags Correlati: Fed | Francesca Marchei | General Motors | Salari e stipendi | Sebbene Cina | Stati Uniti d'America | Wall Street

 

La Fed sta pompando altri 600 miliardi di dollari nell'economia; ma senza una politica fiscale espansiva, questa mossa servirà soltanto ad alimentare la speculazione. Oggi invece le nuove parole d'ordine sono austerità e riduzione del deficit, a Washington come in Europa, il che è assurdo, visto ciò che sta accadendo all'economia.
La risposta non può essere soltanto l'estensione delle indennità di disoccupazione: per rilanciare l'occupazione negli Usa bisogna creare una nuova Works Progress Administration (Wpa), sul modello di quella della Grande depressione. C'è bisogno anche di una banca nazionale per le infrastrutture che consenta la ricostruzione delle reti autostradali, idriche e fognarie ormai decrepite, creando così altri posti di lavoro. Inoltre, l'esenzione fiscale sui primi 20mila dollari di reddito in busta paga lascerebbe più denaro da spendere nelle tasche dei lavoratori con salari contenuti. Bisognerebbe estendere anche alla classe media i crediti d'imposta per i redditi da lavoro, una forma di compensazione salariale, e ridurre le imposte per tutti i contribuenti con un reddito inferiore agli 80mila dollari.


E la copertura finanziaria di queste misure? Negli ultimi settant'anni non c'è mai stata un'analoga concentrazione del reddito nazionale nelle fasce più elevate della società. Le soluzioni citate si potrebbero finanziare con un'addizionale d'imposta del 2% sui redditi compresi fra 1 e 2 milioni di dollari, del 3% sui redditi da 2 a 5 milioni, e del 5% su tutti i redditi superiori ai 5 milioni. A ciò si potrebbe aggiungere un'imposta dello 0,5% su tutte le transazioni finanziarie.
Possiamo scegliere fra queste riforme e una sofferenza economica protratta per milioni di famiglie americane, destinata a tradursi in un clima politico sempre più caratterizzato da divisioni e aggressività. Non possiamo tornare alla vecchia "normalità" di una concentrazione inusitata di reddito e ricchezza ai vertici della società, perché proprio questa "normalità" è all'origine del problema attuale. Un tale squilibrio mina il potere d'acquisto di tutti gli altri americani, incoraggia la speculazione a Wall Street e consegna un potere politico straordinario a un'élite agiata che tende ad acquisire sempre più potere e ricchezza e a impedire al resto dell'America di prosperare.


Ma perché mai questi benestanti dovrebbero acconsentire? Lo faranno quando si renderanno conto che quella attuale è una strategia disastrosa anche per loro. Per le fasce di popolazione più agiate sarebbe meglio detenere una quota inferiore di un'economia florida, da cui scaturisce un clima politico positivo, che non una quota sempre maggiore di un'economia anemica, che alimenta rabbia e insoddisfazione. Dovrebbero trasmettere questo messaggio ai rappresentanti approdati al Congresso con i loro contributi.
(Traduzione di Francesca Marchei)
© TMS

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